Bevi il frammento, lo scorcio, tutte le implicazioni della graffa, la più estrema propaggine che incontri a mente stanca e lampioni alterni. Sinfonia di vita a conati, piccoli sorsi e naufragi, Debussy sull’altalena della biro che non viene, frigida come i poster e la musica a manovella.

Un uomo e una donna che s’incontrano a metà delle scale, come nei vecchi film. E tu sei il passante che dedica loro la coda dell’occhio, un eccitato scodinzolare di fantasia e ricami sintattici. Disperati e osceni a cercarsi il piacere addosso, flaccidi e attempati, nella penombra di un’utilitaria bordeaux: li vedi così nel tuo modello previsionale.  Si saranno conosciuti su qualche social, e lui le avrà mandato la foto del suo membro o una recensione sull’ultimo film di nicchia, il titolo di un classico della letteratura serba, una canzone commerciale. Un movente, qualcosa. No, non erano felici. Di venerdì a mezzanotte, immersi nella nebbia di una brutta città,non si può essere felici. Tu sali quelle scale, non rallenti né guardi, ma presumi. Devi. Dall’alto del tuo castello di carta, devi. Avvolto dalla cappa dorata del cinismo, devi puntare la mente. Per non pensare che tu, venerdì a mezzanotte, cammini per le strade da solo. Devi sentirti superiore, intoccabile. Non puoi credere che una uomo e una donna decidono d’incontrarsi per le scale a metà strada, quel giorno, in quell’ora, perché esiste una qualche realtà in cui c’è spazio per questo. Così semplice, commovente, insopportabile.  Pensi che da piccolo detestavi il radicchio nell’insalata, a priori, senza averlo mai assaggiato. Superbo nel tuo partito preso, sicuro. Non hai mai incontrato nessuno così, a metà delle scale: e allora non è possibile che ti accada davanti. E se succede, è qualcosa di ridicolo, sporco, artificiale. È sesso, disperazione, illusione ignorante. Eppure forse,in qualche piccola recondita alcova, sai che sei tu, il passante, ad esserti abituato alle lame, al nero di Marte, al falso dispotico. Ma non riesci ad accettarlo: sei troppo intelligente. E scrivi qualche riga ebbra, inseguendo quel suono che il diaframma interiore distorce, dopo la piccola apnea fenomenica:

“Vibra una corda nell’assolo, unghia nel vento  l’ urlo del violino solo, che lento si crepa, sporcando il suono. Clamore di rock su Chopin, mentre scioglie lo spartito un’armonia. Ed è di vertebra spezzata, gesso che stride sull’ardesia,  conato di reflusso, acutissimo silenzio…”

Non parli più dell’uomo e della donna, delle scale a mezzanotte: eppure tutto questo esiste, dietro le parole, nel gorgo dell’irata visione. Poi l’improvvisa caduta dei flauti-fagotti, sottile e inesorabile. Non c’è più niente da dire, se non il negativo dell’estro che da immensità indeclinata, si decide un brutto abito di scarto. Non quello che accade, ma il modo in cui in te prende forma, insospettabile e alchemico, viscerale, arrogante. Ti sali da solo addosso, sulle costole , per raggiungerti la fronte, le mani a cucchiaio ai lati degli occhi, le palpebre strette. Deve esserci qualcosa che pesa sul cuore tirando i lati della bocca verso il centro della terra, ed è tra le braccia della dura madre.  Lasci alle due comparse notturne tutta la tenerezza, senza più orgogli: non c’è nessuno a guardarti, dopotutto. Puoi lasciarti andare ai sentimenti veri, esprimerti, sentirti solo liberamente, goderne. Raccontarti una storia, viaggiare lontano, spostare di un metro la sedia per un altro tramonto, desiderare anche tu, quella semplicità: un venerdì a mezzanotte, l’esatta metà delle scale.

Che assurda debolezza, infantile  come il “ne voglio ancora” sapendo che “non ce n’è più”.

Sarà forse una lunga notte senza sogni.

Delia Cardinale

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