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Quarta di copertina

«Ho rimorchiato una tipa» le disse, era per la coca, non si vantava di solito. Ma Rossana lo sapeva e lo capiva, era quello il bello. Con certe persone sai di non essere mai sbagliato.

L’amore ai tempi della droga è un modo per toccarsi senza essere realmente vicini. Amore chimico è la storia di giovani in cerca di risposte e identità, in precario equilibrio sul filo della vita.

© tutti i diritti riservati

segue da parte 11

…SVEGLIO

 Ho aperto gli occhi e ho visto Sandrino, era enorme, come al solito, girato di schiena vicino la finestra.

«Eclissi dammi dell’acqua» gli ho detto. Lo chiamo così ogni tanto, a lui non dispiace.

Lui si è voltato di scatto, mi è sembrato un bambino.

«Lo sapevo che ce la facevi» mi ha detto dandomi da bere, la sua manona tremava quasi.

Il sapore dell’acqua. Dicono che non ne abbia, provate a bere dopo due mesi che non lo fate e ditemi voi. Semplice e buona, due atomi di idrogeno uno di ossigeno. Quello che serve. Semplice e buona.

Finisco il bicchiere tutto d’un fiato.

«Chiamo il medico» dice Sandrino.

«Aspetta un poco. Stiamocene io e te, per un po’.»

«Come vuoi amico mio» fa lui e si siede, sorride e io sorrido a lui. Ieri sera prima di prender sonno stavo pensando qualcosa ma non ricordo, e a dire il vero non mi sembra poi tanto importante.

È arrivato il medico alla fine, ha controllato i miei valori, mi ha sentito il polso, anche lui sembra avere un’ombra di sorriso sul volto oggi. Sembra un uomo buono, ci deve volere coraggio, di quello vero, e vocazione, per fare questo lavoro.

«Glielo dicevo. Bisogna portare pazienza.»

«Già» faccio io. «Quanto dovrò pazientare prima di uscire?»

«Il fatto che lo chieda è un buon segno. Non ci vorrà tanto, solo un altro po’ di pazienza, il segreto di tutto.»

Sono passati tutti, come avevano fatto mentre dormivo, non chiacchiero ancora tanto, mi affatico per nulla, ma vedere i visi delle persone che mi vogliono bene mi riempie il cuore. Pensare che io ci sono ancora, e loro per me. Sarebbe stato un peccato andarsene. Non credevo di avere tanti amici, tutte le loro facce hanno qualcosa di unico, tutti sono unici e mi hanno dato qualcosa di speciale.

Sono passati tutti tranne Lana, fa niente, la rivedrò quando uscirò.  Credo che appena mi sarò rimesso cambierò casa però, ogni tanto bisogna cambiare, tutto qui.

Non provo rancore per lei, e mi dispiace per quello di brutto che le ho dato.

Talvolta si sbaglia, talvolta non si sa cosa si vuole. Ci sta pure questo.

Mi sembra così strano guardarmi alle spalle, vedere tutto quello che mi è accaduto, fin dove mi sono spinto, in apnea, sempre più giù, in fondo. Poi semplicemente sono risalito. Sono stato fortunato. Non credo di aver fatto nulla per meritare la mia salvezza. Un giorno forse pareggerò i conti, per ora ringrazio e tengo stretta la mia vita.

Il mio cervello è andato sfilacciandosi, prima e dopo l’incidente, ne sono consapevole. Non ricordo e non provo grande interesse per ciò che ho pensato in certi momenti, se non li ho conservati vuol dire qualcosa. Forse ci sarà un tempo anche per quello. Ma ci sarà, il tempo, è quello che conta.

Mi conosco meglio, questo senz’altro, so quanto l’animo umano sia fragile, come un castello di cristallo che si spinge verso il sole e riflette i suoi raggi. La fragilità è il prezzo che si paga per andare lontano.

Ho abbracciato mia madre, mio padre, che miracolo che è la famiglia e che forza riesce a dare. Ho promesso a mia madre che presto sarò a pranzo da loro, mi lecco già i baffi, non vedo l’ora di mangiare qualcosa di solido.

Lascio l’ospedale che è sabato mattina, per fortuna a Milano non fa troppo caldo, anche se è appena cominciato luglio.

Appena mi sarò ristabilito un po’ farò un viaggio, dopo tutto lo avanzo. Nuoterò in mari diversi, nell’oceano, conoscerò altre persone e qualcuna se sarò fortunato e capace diventerà mia amica, nel tempo, col tempo. Non posso fare a meno di pensare a posti esotici quando sono in una stazione, sia anche quella di una metropoli.

Arrivo a Bologna, la città che mi ha adottato, la città della strage, a cui penso ogni volta che guardo quell’orologio che si è fermato prima delle dieci e venticinque. Penso che sarebbe bello se in un altro mondo vivesse quel minuto che non c’è stato. Tutta quella gente, il loro futuro, le loro singole storie immensamente importanti.

Basta un attimo a volte per cambiare tutto, per sempre.

Ora tutti sembrano avere un posto dove andare o qualcosa da fare. La gente quasi corre attorno a me, in certe città non ti senti mai solo.

Prendo via Indipendenza, voglio fare due passi, è da tanto, mi aiuto con un bastone in legno scuro col manico di argento, è un regalo di Gigi, è venuto anche lui a trovarmi coi problemi che ha.

L’aria è tanto calda da sembrare rarefatta, cerco col naso il respiro fresco del vento, raro come oro in un fiume. Poi, senza che me l’aspetti… Eccola lì, di fronte a me.

Una marea di persone, un delirio, la Street Parade.

L’avevo scordata, non riesco a crederci, eppure ora mi sembra la cosa più naturale del mondo. Se non mi fosse successo tutto questo sarei in mezzo a loro a ballare.

È un corteo di anime, di corpi, di carri che sparano musica a diecimila watt.

Io mi ci tuffo, contromano, sono l’unico che scende verso il centro, attorno a me ventimila persone… e io le spacco, le attraverso, mi infilo dentro a tutto quel colore e rumore. Taglio la folla delirante, a passi barcollanti ma degno, con lo sguardo diritto e la testa alta. Attorno a me ragazzi sudati, rasati, coi dreads, pieni di piercing, ogni carro che passa ha il suo stuolo, uno diverso dall’altro, come la musica che esce dalle casse.

Discotecari vestiti di chiaro e con la brillantina al passo dell’house, pasticche nel corpo e occhiali da sole, cinte pitonate, ragazze in minigonna e scarpe coi tacchi, lampadate.

Il carro Reggae subito dopo e il suono che cambia, i ritmi della Giamaica e i fricchettoni, vestiti comodi, con una canna in bocca.

I raver, vestiti di nero o di grigio coi berretti calati sulla testa, a petto nudo i più fuori, speed, acidi, alcuni sotto ketamina, che da anestetico per cavalli è diventata droga per esseri umani.

I goani e la figa che ne consegue, sono i più colorati, con fascette fosforescenti attorno al collo o sui polsi, una ragazza con delle ali colorate, come una farfalla, una vestita con un completino argento, con le lucette a intermittenza attorno ai fianchi, mdma e pasticche, funghi allucinogeni.

Respiro a pieni polmoni, qualcuno mi guarda con le pupille dilatate la maggior parte mi ignora alcuni mi sorridono, è l’empatia. Riconosco subito i “PresiBene”, ci sono stato, e i “PresiMale”, sono stato anche quello.

C’è una fermata d’autobus con la pensilina e dei tipi che ci ballano sopra; delle persone esterrefatte, dei cittadini fermi sul marciapiede guardano questo scorrere incessante di vita che se ne va.

Poco dopo è tutto finito.

Sono in Piazza Maggiore, c’è il sole, il silenzio e quasi nessuno.

Un bambino che corre dietro un pallone, una mamma col passeggino, un vecchio che dà da mangiare ai piccioni e un tizio con una borsa che va da qualche parte. I netturbini spazzano, un vento leggero arriva a portar via un po’ di calura e a me è venuta voglia di un gelato.

UNA SETTIMANA DOPO

Va meglio, va molto meglio. In questa settimana da che sono uscito dall’ospedale mi sono preso cura di me come fossi un tempio, magari un po’ da restaurare.

Ho mangiato bene, seguendo alla lettera i consigli che mi avevano dato i medici, ho riposato tanto, sembra quasi non abbia dormito affatto mentre ero in coma. Un giorno sì uno no, viene a trovarmi un fisioterapista, faccio della ginnastica per riappropriarmi del mio corpo, è un po’ come se fossi tornato bambino, anche i movimenti più semplici a volte mi creano problemi. Ma miglioro, ho la testa dura anche se rattoppata. Quanto alla mia salute mentale so che ho ancora della strada da fare. So di non essere invincibile come a volte nel mio delirio mi sono sentito ma d’altronde è stata proprio la sensazione di forza che mi ha portato a farmi così male.

Avere la consapevolezza dei propri limiti non è un limite, è consapevolezza.

Oggi devo andare a pranzo dai miei genitori, non vedo l’ora di vederli ma prima devo fare una cosa, lo so da quando sono tornato, aspettavo solo di fare chiarezza e prendere un po’ di forza.

Così prendo il telefono e chiamo.

«Matteo che bello sentirti» mi fa Silvia con voce sincera e tremante.

Povera Silvia, non meritava tutto quello che le ho fatto. Non volevo farle del male ma a volte lo si fa anche senza volerlo. Il più delle volte si chiama egoismo.

«Ciao Silvia. Come stai» faccio io chiudendo gli occhi.

«Bene. Tu piuttosto come stai? Sapevo che eri uscito, ho chiamato l’ospedale, ma ho pensato che se avevi voglia di sentirmi mi avresti chiamato.»

«Sei troppo carina Silvia, lo sei sempre stata.»

«Grazie.»

«Hff… Dico sul serio… Sai ho ripensato tanto a te, a noi, in questi giorni, da quando sto meglio. Mi spiace per come mi sono comportato con te, era come se andassi in macchina con la nebbia fitta, senza le strisce bianche a indicarmi il cammino. Si rischia di metter sotto qualcuno e mi sa che l’ho fatto.»

«Io ci tengo a te Matte» mi fa lei, ha la voce sottile, è intelligente, potrei far a meno di continuare, ma a volte non ci si può sottrarre al peso dei propri errori. Bisogna solo essere onesti e dire le cose come stanno, sforzandosi di trovare le parole giuste.

«Anche io ci tengo a te, sei una bella persona o quanto meno con me lo sei stata. Sono io che non ho meritato quello che mi davi, che non lo capivo neanche. Ero sempre fatto, troppo fatto per capire qualcosa, a parte la passione e l’intensità di alcuni momenti.»

«Io penso che possiamo ripartire Matte, come se ci conoscessimo ora. Ti invito a cena ok?»

Non ne vale la pena Silvia, penso io, non per quello che sono stato, e di quello che sarò ancora non sono certo.

«Devo stare da solo Silvia, ho bisogno di riprendermi, di trovare il mio spazio e capire cosa voglio. È come se ogni giorno andasse a posto un nuovo tassello ma ho rotto un puzzle troppo grande. Mi ci vorrà del tempo e non posso chiederti, né voglio, che tu mi aspetti. Potrebbe non servire.»

«È per Lana?» mi fa lei.

Pensavo sospettasse qualcosa ora ne ho la certezza. Potrei negare tutto ma questo era un altro Matteo. Niente bugie.

«No, non è per lei.»

«Dimmi la verità ha mollato il tipo e vuoi stare con lei».

Sorrido, tanto mi sembrano assurde quelle parole.

«No dico sul serio. Lana sta ancora con Marco e io non ho nessuna intenzione di stare con lei. È una storia chiusa Silvia…» trattengo per un attimo le parole che ho in bocca: «Come la nostra. Mi spiace. È stata davvero tutta colpa mia».

«Non sono d’accordo Matteo. Puoi dirmi che tra noi è chiusa, non posso farci niente, ma non è stata tutta colpa tua.»

«Silvia tu non c’entri niente davvero.»

«Già» si limita a dire lei, è tornata fredda, penso che è normale, che capita sempre così. Come capita che le parole finiscono e non resta che l’amaro in bocca e il vuoto nello stomaco.

«Ciao Silvia.»

«Ciao Matteo.»

SOGNO GIALLO ARANCIO

Matteo è steso su una sdraio gialla, nel giardino di casa sua, le ferite alla testa sono quasi guarite, i capelli hanno cominciato a ricrescere e presto del suo travaglio non si vedranno più i segni.

Fa caldo, è in costume da bagno, calzoncini corti arancione, un ombrellone gli regala un po’ di ombra e ha un bicchiere di succo d’ananas corretto nella mano destra. Si sta bene.

Lana e Marco sono partiti per la montagna. Niente ti fa sentire libero come la montagna, ha detto loro mentre li salutava.

Sono stati carini con lui quando è rientrato, lo hanno invitato a cena, una grigliata nel loro giardino, musica, chiacchiere, hanno fumato anche uno spinello.

È strano vedere come le cose cambino, si trasformino, perdano i connotati sanguinolenti e diventino color pastello. Alla fine il tempo e il suo scorrere è una benedizione.

Ora ha le palpebre pesanti Matteo, non si sente un rumore che sia uno costruito dalle goffe mani dell’uomo, solo il cinguettio degli uccelli e un leggero scuotersi di foglie al vento che timido s’affaccia.

Casca in terra il suo bicchiere quasi vuoto, il succo d’ananas bagna appena il prato e lui sente il sonno che arriva, caldo e scuro, i segni d’espressione e le rughe che ha sul viso si distendono. La sua forza mentale, sino ad allora concentrata in un punto tra la sua fronte e il suo naso si sublima, è come aria fresca che si espande, e un sorriso gli si dipinge sul volto.

Piano Matteo diventa un’aquila, che vola in alto nel cielo, sotto ci sono cime di monti verdi e lussureggianti e costoni rocciosi che scendono ripidi. Guarda tutto dall’alto, da centinaia di metri, col vento che spira e lo tiene su, immobile, con le ali spiegate.

Poi scende, gli basta un movimento impercettibile e prende velocità nell’immensità che lo circonda, giù, coi monti che si avvicinano.

Ha la piena padronanza del suo nuovo corpo, dell’involucro che ora ha il suo animo, tanto da non sentire e non ricordare il suo essere stato umano.

Vola in orizzontale ora, più vicino alle vette, guarda in basso e come lo zoom di una Nikon che ci sarà tra cento anni coglie ogni particolare degli alberi, dei cespugli, di tutto ciò che vive sotto di lui.

Poi vede un coniglio, che rosicchia una nocciola, il suo sguardo si stringe e, non sa perché, si butta in picchiata.

DISSOLVENZA

 TANTO TEMPO FA… ORA NEL MONDO DEI SOGNI…

Matteo è seduto sul divano in casa di Lana, Marco non c’è, partito per un sopralluogo su un cantiere, ha in ballo un lavoro importante che forse lo porterà via a lungo.

Lana lo ha chiamato al telefono nel pomeriggio, Matteo era ancora a lavoro, per un aperitivo se gli andava e magari per la cena.

L’ha sentita strana, non fosse stata lei avrebbe detto che era una specie di invito.

Non può essere però, vivono insieme da due anni, lui l’ha sempre trovata attraente, lei mai gli ha concesso un centimetro e lui non se l’è preso.

Capitava di chiacchierare, anche da soli sui rapporti umani, sul modo che abbiamo di scaldarci quando arriva la sera. Lei lo trovava libero, d’altronde gli aveva visto portare in casa più di una ragazza, lei non aveva quel carattere, gli aveva detto una sera, lei era una donna di terra. L’espressione lo aveva fatto sorridere.

Eppure non poteva non dare un certo tipo di interpretazione alla sua telefonata, alle parole che aveva usato, al tono soprattutto, alle pause, al tremore leggero che aveva la sua voce. Chissà.

Lana tornò da lui con una caraffa di the, la posò sul tavolo che era alle spalle di Matteo, piegandosi verso di lui, aveva un vestitino sottile, di quelli che sembrano posati addosso più che indossati.

Il suo corpo teso, perfetto, la sua pelle che cominciava a colorarsi ai primi raggi del sole ed emanava un odore unico e avvolgente.

Poi lei si voltò verso di lui, mentre era ancora piegata, Matteo vide le sue labbra carnose schiudersi, poi i suoi occhi verdi, come pieni di tutta l’acqua dolce del mondo.

Poi di nuovo le sue labbra che andavano verso di lui.

Si baciarono così. Il resto è una storia che un po’ conoscete.

QUANDO MENO TE LO ASPETTI

Sono passati cinque mesi, Natale è alle porte. La casa di Lana e Marco, e la legnaia dove ancora Matteo vive, sono illuminate da centinaia di lucette colorate, hanno persino addobbato un albero.

Matteo si è ripreso quasi del tutto, cammina senza bastone, solo alcune sere si sente più stanco, quasi più vecchio, ma gli basta una buona dormita per star meglio. Con la convalescenza ha imparato ad apprezzare di più il valore di una buona dormita.

I tre vivono sereni, Lana e Matteo hanno saputo ricostruire un rapporto che sembrava rovinato dalle nevrosi, dai sensi di colpa, dalla noia. Marco sembra ignaro di tutto, o un tipo alquanto emancipato, a Matteo non importa, sono affari suoi e di Lana oramai.

È sera, l’aria è fredda e minaccia neve, il vento taglia come lame. Lana attraversa il giardino con uno scialle addosso, ha le gote rosse e il fiato che diventa una nuvoletta non appena esce dalla bocca o dal naso. Suona alla porta di Matteo (quella porta che era sempre aperta per lei), la luce è accesa, magari gli va di cenare con loro. Aspetta che lui arrivi ad aprirle, quasi se lo vede col suo passo tranquillo, non sembra uno che ha rischiato la vita, ma uno che ha capito che correre può non essere necessario. Sorride Lana, al freddo. Poi la porta si apre e lui è di fronte a lei.

Ha una maglia di lana grigio scuro che gli scende morbida sulle spalle, il colletto slacciato, pantaloni comodi marrone, la barba un po’ lunga, gli occhi limpidi e sereni.

«Entra,» fa lui «se no prendi freddo».

Lei entra in casa, le braccia strette al corpo.

«Volevo chiederti se ti va di venire a cena, ho fatto lo sformato, ricordi?»

Certo che ricordava, sorrise Matteo e anche lei.

«Parto tra poco, non posso.»

«Dove vai?» lei colta di sorpresa, con una stana stretta allo stomaco.

«Ho il volo per Città del Messico tra tre ore, sto finendo di metter via della roba.»

Allora Lana toglie lo sguardo dagli occhi di Matteo e vede che ci sono vari scatoloni in giro e due valige di cuoio lucido.

«Ma… Vai via…?»

«Vado via Lana. Sarei passato a salutarvi. Ho preparato un assegno, non vorrei arrivassero delle bollette a mio carico, comunque avete sempre il mio numero.»

Lana non capisce, è colta di sorpresa, eppure l’aveva sempre saputo. Lui stesso lo aveva accennato un paio di volte negli ultimi mesi.

«Sì… Lo so… È che non me lo aspettavo così d’un tratto… Niente. Scusa.»

Sente un nodo alla gola e si sente piccola e malinconica.

«E di cosa?» fa lui. La abbraccia e lei sente il suo odore, forse per l’ultima volta. È una luce forte, limpida, che per un attimo ancora, la stacca da tutto. Poi Matteo la lascia. Lei lo guarda negli occhi.

«Questa volta non mi chiedi se voglio venir via con te?» dice d’istinto, non è una domanda, lo sa non appena il fiato diventa suono e parola.

«No… Questa volta no.»

 EPILOGO O PROLOGO?

Alla fine vien mattino.

Se sei buono o sei cattivo,

alla fine vien mattino.

LA TIGRE

 Lana si svegliò presto, come da qualche giorno le capitava. Matteo era partito, volato via sarebbe il caso di dire. Prima o poi sarebbe dovuta entrare in quella che era stata la sua casa e ora era tornata a essere la legnaia, per rimettere tutto a posto. Non ora però.

Marco dormiva beato, lei lo guardò appena, mentre si vestiva per andare a correre, poi passò in cucina, prese del caffè pronto e lo riscaldò sul fornello, non aveva voglia di farne dell’altro e poi aveva premura di uscire. Ultimamente le veniva difficile star ferma, fosse anche per poco tempo.

Non si guardò allo specchio quando vi passò davanti, anche quello chissà perché, da qualche giorno le costava una strana fatica.

Fuori l’aria era gelida, per fortuna aveva indossato una felpa pesante e un paio di pantaloni lunghi aderenti e blu, che la tenevano calda, raccolse i capelli castani in una coda, mentre soffiava nuvolette bianche dal naso e dalla bocca e partì al piccolo trotto. Non c’era nessuno, solo lei, gli alberi, la nebbia.

Anche il parco era immerso nella foschia, ci sarebbe voluto ancora un po’ prima di riuscire a guardare lontano, ma tanto lei conosceva la strada a memoria, così come il tempo che avrebbe impiegato per fare i suoi due giri. Strinse i pugni, soffiò sulle nocche altre nuvolette bianche e aumentò di poco la velocità.

Cercava di non pensare, ci provava da giorni, quando correva oramai era come se corresse per fuggire ai suoi pensieri. Si era illusa di poter ingabbiare la tigre. Di poter trasformare  il suo rapporto con Matteo in un’amicizia, le sarebbe sembrato forse così di non spezzare il cerchio, ancora una volta.  Se fossero rimasti amici, dopotutto, avrebbe potuto accettare ciò che era stato, ciò che sembrava impossibile fare quando Matteo era stato male o ancor più quando aveva avuto l’incidente. A volte pensava a cosa sarebbe successo se fosse morto. Un brivido la percorse, dalla base della schiena sino al collo. Strinse di più i piccoli pugni e aumentò ancora il passo.

Non era morto per fortuna, non aveva colpe gravi e irrimediabili. Con Marco piano sarebbe tornata alla solita vita, e poi lui aveva quella straordinaria capacità di non essere toccato da nulla. Di non capirla, in fondo, di lasciarle sempre una parte segreta e tutta per sé. La tigre. Che aveva ruggito, e ora le lasciava le ferite degli artigli sulla schiena. Si sarebbero cicatrizzate, si sarebbero confuse con le altre che aveva, ma sapeva che avrebbero fatto male comunque, quando meno se lo aspettava, in una notte di pioggia o in una mattina d’estate, poco importava.

Perché ogni emozione le riservava un rimpianto?… Tanto grosso quanto l’emozione stessa…

Il ricordo di Matteo le faceva venire un nodo in gola già adesso, che era semplice nostalgia.

LA PRIMA CORSA

La puttana è veloce ma io lo sapevo, sono preparata.

Hai sbagliato la strada su cui correre troia, avevi un uomo, ne hai voluto un altro.

Era il mio.

Ho fatto un giro del parco per scaldarmi e capire un po’ che giro faceva, fa sempre lo stesso percorso. Mi nascondo dietro una siepe, l’aspetterò qui.

Gli uccellini cinguettano appena, non c’è nessuno e questa nebbia inghiottirebbe chiunque.

Che trovi la forza di andare sino in fondo, di fare ciò che va fatto, di prendermi ciò che mi è stato tolto quando ero bambina.

Io voglio lui. Lei è uno stupido impiccio.

Poco importa ciò che dice Matteo, è stata tra noi sin dall’inizio.

Sento il suo passo che si avvicina, mi passa davanti.

È un attimo. Io esco fuori e col bisturi le taglio la gola, da dietro, alle spalle.

È un colpo netto e la testa quasi casca in avanti, piegandosi goffamente.

Il corpo si affloscia, come un sacco di patate per terra, il sangue zampilla dal suo cervelletto. Si macchiano la sua felpa e i pantaloni blu, l’asfalto freddo e duro si colora di rosso.

Mi allontano, correndo ma non troppo, deve sembrare che faccio jogging, anzi è proprio quello che faccio. Esco dal parco al piccolo trotto, volto a sinistra e monto in macchina. Metto in moto, ancora nessuno intorno, parto, tutto è filato liscio.

Nessuno mi ha visto.

Ora devo arrivare a casa, bruciare i vestiti che indosso, pulire l’auto con cura, il sangue lo vedono anche dopo mesi, fare una bella doccia e lavare e disinfettare il bisturi. Domani sarà nuovamente tra centinaia uguali in facoltà e nessuno troverà mai l’arma del delitto.

Devo restare lucida, fredda, non devo sbagliare nulla.

Un sorriso si dipinge sul volto di Silvia, riflesso nello specchietto retrovisore.

AEROPORTO DI BOLOGNA

Matteo cammina con passo sicuro nei suoi jeans e nel suo maglione grigio.

La sua valigia sarà presto in viaggio verso il ventre panciuto dell’aeroplano, per ora la trascina, col suo bagaglio a mano, una borsa chiara di pelle che porta a tracolla. Dentro ha degli abiti più leggeri, in Messico fa caldo pensa e sorride, un libro, i giornali, una cartina, gli analgesici che ancora ogni tanto prende.

In mano ha il passaporto e il biglietto; in tasca telefono, un po’ di denaro, le carte e altri documenti.

Ha addosso tutto quello che serve per essere preso, catapultato dall’altra parte del mondo e se gli va ritornare. È una sensazione che gli è sempre piaciuta, soprattutto ora, che dall’altra parte del mondo sta per andarci.

Si avvicina al check-in, una ragazza bionda e carina gli sorride dall’altra parte del vetro…

La tizia bionda dietro il vetro prende il passaporto e il biglietto, ha le unghie laccate di rosso, una faccia troppo lunga e una bocca troppo larga. Sorride. Cosa avrà poi da sorridere nel vedere la gente partire, mentre lei se ne sta lì, è tutto un mistero.

«Va in Messico in vacanza Signora Foschi?» chiede insolente.

Silvia ricambia il sorriso, un sorriso adesivo appiccicato su una faccia tirata. Legge il nome dal suo cartellino poi dice.

«No. Patrizia cara. Vado a finire un lavoro lasciato in sospeso.»

«Buon lavoro allora, l’imbarco è tra pochi minuti.»

Silvia riprende il passaporto e il biglietto, ha ancora sulla faccia appiccicato quel sorriso.

«Grazie» dice piegando la testa di lato ed aumentando il sorriso in una specie di ghigno.

Se ne va così, sculettando sui suoi tacchi alti e nel suo vestito nero aderente.

Canticchia Silvia:

«Killing me softly whith his song…» e continua a sorridere.

Poi la musica piano si alza, la voce di Roberta Flack prende il posto della sua, e noi la vediamo andare via di schiena, mentre il Messico e il suo amore ignari l’aspettano.

Fine

Ringrazio: la mia famiglia, la città di Bologna, la Bubu Family; la professoressa Bardi, per la sua grande cultura e il suo incoraggiamento. La dottora Alba Monti, “non siamo di-versi”. Pantu, rapper e musicologo che mi ha evitato di inciampare sul traguardo e ha plasmato la copertina della seconda edizione, Roberta Calcagnile, l’indispensabile. Marcello Arnò, di motivi ce ne sarebbero troppi. La famiglia Baldi per l’aiuto con il bolognese. Annalisa Falcicchio, e tutti gli altri giornalisti, blogger, amici e lettori che hanno amato questa storia per qualche bella ragione che a me sfugge. Ogni scrittore che emoziona. Ogni lettore che si emoziona. Tutti i coinquilini strambi con cui ho vissuto. Paola, senza la quale tutto questo non sarebbe stato possibile. Tutti gli amici che mi hanno letto quando ero un semplice foglio elettronico, sentirli ridacchiare nel momento esatto in cui immaginavo è stato solletico per la mia anima. Per la seconda edizione un grazie a: Ophelia Queen, Sara Meliti, Maurizio Monte, Daniele Vergni, Salavatore Castrignanò, Silvia Giorgetti, Marta Solazzo, Marina Greco, Giorgia Foschini, Livia Del Gaudio, Tatiana Carelli, Isabella Santacroce, Barbara Baraldi, Chiara Cordella, Silvia Canonico, Patrizia Chiuppesi, Loredana Ruffilli, Rossella Parato, Alessandra.

Realizzato con il contributo indispensabile del collettivo

REST iN PRESS ©

in copertina foto di Matthieu Roggero, artista OfeliaQueen

Testo e immagini sono tutelati da diritti d’autore, è possibile riprodurre in parte il testo con obbligo di citare la fonte.

Dello stesso autore:

Qui tutto va a puttane, racconti AAVV.

Gingko 2009

Il fattore M (lo strano caso del rapimento Vendola), romanzo.

Parti precedenti:

( parte 1) http://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-1/

(parte 2) http://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-parte-2/

(parte 3) http://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-3/

(parte 4) http://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-4-2/

(parte 5)  http://www.colorivivacimagazine.com/2016/01/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-5-e-link-a-precedenti/

(parte 6) http://www.colorivivacimagazine.com/2016/01/httpwww-colorivivacimagazine-com201601amore-chimico-k-a-precedenti/

(parte 7) http://www.colorivivacimagazine.com/2016/01/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-7-e-link-a-precedenti/

(parte 8) http://www.colorivivacimagazine.com/2016/01/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-8-e-link-a-precedenti/

(parte 9) http://www.colorivivacimagazine.com/2016/02/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-9-e-link-a-precedenti/

(parte 10) http://www.colorivivacimagazine.com/2016/02/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-10-e-link-a-precedenti/

(parte 11) http://www.colorivivacimagazine.com/2016/02/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-11-e-link-a-precedenti/

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