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Ero preda di un’inquietudine pressante, non riuscivo a restare fermo, attraversato da correnti di energia che si diramavano attraverso i fasci di nervi, mantenendo tutto il mio corpo elettrico e frenetico.
Non dormii neanche un secondo.
Non ci provai neanche.
Attesi l’alba sul lungomare, seduto su una panchina con lo sguardo perso nel vuoto, nell’aria gelida di una notte di gennaio.
Osservai il sole staccarsi dall’orizzonte frastagliato e liquido; ero ipnotizzato.
Un pescatore prese posizione non lontano e lanciò la lenza dalla ringhiera. La guardò tuffarsi nell’acqua melmosa di quel tratto di mare inquinato e venire inghiottita, attendendo un paio di centimetri sotto il pelo che qualche pesce venisse attratto da quella preda ingannevole.
“Uagliò! Cce ssì, mbriache?”
Ci misi qualche secondo a capire che ce l’aveva con me.
Mi voltai lentamente e lo vidi guardare nella mia direzione con un ghigno compiaciuto, al quale mancavano un paio di denti. “No, no, grazie. Sto benissimo.”
“E allore cce ttine, le cazze pe la cape?”
Indubbiamente era un modo piuttosto colorito di esprimere ciò che provavo. “Eh.”
“Lasse pèrde!”
“Magari!”
“Ccì iè, robbe de fèmmene??”
Gli scoppiai a ridere in faccia, senza riuscire a trattenermi, cosciente che poteva leggerlo come un affronto.
“Anche. Ma non solo.”
“Cazze tùe, allore.
Pienze, megghièreme vònne ddù ianne ca m’ha lassàte. E iì me ne vènghe ddò tutte le matine, ca iè la sòle cosa bbèlle ca me rèste”
Mi offrii di portargli un caffè dal bar lì vicino.
Mi ringraziò. Me lo chiese corretto, per favore. E anche un cornetto, già che c’ero.
Mentre andavo a prenderglielo pensai che – in quel piccolo teatro dell’assurdo che stava prendendo forma – magari avrebbe potuto persino lasciarmi una mancia. Chissà.
Gli portai ciò che mi aveva chiesto e rimasi con lui ad aspettare che finisse la consumazione. Intanto guardavo il sole sorgere e riflettersi sul mare, divincolarsi da quell’orizzonte liberato che, fino a pochi anni prima, era stato ingabbiato dallo scheletro di un palazzo orrendo ed enorme sorto dove non avrebbe mai dovuto – praticamente sul litorale – e finalmente abbattuto dopo infiniti tira e molla per restituirci il tratto di costa.
Quell’alba era una visione che faceva bene. Compresi il concetto che il mio novello amico aveva voluto esprimere in parole piuttosto povere: ogni mattina, da due anni, veniva in quel posto a pescare pesci che magari non avrebbe mai mangiato. Era l’unica cosa che gli dava la forza per affrontare le giornate, il divorzio, la vita da scapolo grasso e sdentato senza alcuna speranza di rifarsi una famiglia, le prostitute e chissà cos’altro.
È stupido, ma quell’incontro mattutino, che sfiorava il surreale, mi aiutò a prendere la strada per l’ufficio, per fronteggiare il fuoco incrociato che mi attendeva.

Da “Un romanzo inutile” di Manlio Ranieri. Musicaos:ed

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