Feste e funerali
Quasi ipnotizzato, osservo quel dirigibile con la scritta “Bad year” che, dal cielo, sgancia bombe-palloncino mentre viene trascinato in mezzo al pubblico festante da due uomini travestiti da cani.
Il caldo dell’estate fiorentina è qualcosa di molto duro da sopportare, così molti degli spettatori del concerto dei Green day scambiano quella visione surreale, folle, con un’allucinazione dovuta all’insolazione del pomeriggio. Nel frattempo, sul palco, la band suona “When i come around”, inossidabile successo del 1994.
Lo stacco è deciso, quasi paradossale: la musica del gruppo americano sembra allegra e scanzonata, ma la sua energia ci racconta anche d’altro, ci racconta delle bombe, della rabbia, delle manifestazioni contro Trump che stanno scuotendo gli Stati Uniti (“I’m not a part of the Trump propaganda”, canta Bille Joe Armstrong, adattando un verso di “American idiot” al 2025.)
Quell’attimo è stata la perfetta metafora della mia vita: felice, nel piccolo ritaglio di mondo che mi circonda, mentre però, tutt’intorno, cadono bombe, attendo a funerali di giovani morti di tumore, ho amici in difficoltà e non sono in grado di aiutarli.
Un pezzo di me va in frantumi ogni giorno, e mi affanno a fondere polvere d’oro per riparare quelle crepe e renderle preziose; mi dico che ne ho il diritto. Mentre Bille Joe cantava “Wake me up when september ends”, dedicandola alla festa del papà che, negli USA, si festeggia a giugno – “Gli innocenti non durano mai, come mio padre che se n’è andato così velocemente. Sette anni sono fuggiti via in fretta, svegliatemi quando finirà settembre” – e le lacrime mi si condensavano negli occhi, sforzandosi di non uscire a rovinare quell’atmosfera di festa, ho ricordato che, in fondo, il mio prezzo l’ho pagato.
Mi sono sentito in diritto di urlare con rabbia e determinazione “Ascolta il suono della pioggia che cade, venendo giù come le fiamme dell’Armageddon. La vergogna per quelli che muoiono senza neanche un nome”. Quella rabbia con cui dichiaro che quello che sta succedendo nel mondo non sta accadendo in mio nome. Come se ci si potesse mai sentire davvero del tutto innocenti. Invece la realtà è diversa: ogni volta che leggo le notizie la prima sensazione che provo è la colpa.
I concerti sono uno dei pochi riti collettivi che il pigro mondo social non ci ha ancora mangiato. È finito il tempo delle manifestazioni – almeno in Italia – delle rivoluzioni, degli auguri fatti agli amici al di fuori dei gruppi WhatsApp, facendo schioccare boccali di birra invece di inviarli via emoticon.
Teniamoci stretti almeno quelli, mi son detto.
Per andare a vedere Firenze Rocks ho speso un bel gruzzoletto, io che posso permettermelo. E sì: è pur vero che rinuncio a tantissimo superfluo, che mi vesto solo dai mercatini dell’usato e non compro telefoni da ottocento euro, non ho la televisione e vado in giro in bicicletta o in utilitaria, ma a chi la vado a raccontare? È evidente che urlare con il pugno alzato al concerto dei Green day sia qualcosa di ben poco coerente, ma almeno la musica lasciatemela credere ancora genuina.
Lunga vita al Rock’n’roll.
Testo e fotografia di Manlio Ranieri
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