La grandezza del Distorsioni Sonore Fest
Oggi vi parliamo di un festival che si svolge in Puglia con coraggio e che – mea culpa – non conoscevo, ma mi ha conquistato dalle prime battute.
Mi son ritrovato alla serata conclusiva dell’edizione di quest’anno grazie a una band che seguo da un paio d’anni: i Voina. Sei punk abruzzesi irriverenti e senza peli sulla lingua che, negli ultimi tempi, hanno osato esplorare sonorità nuove. Sto per dire qualcosa che per qualcuno sembrerà una parolaccia: negli ultimi loro lavori ho intravisto degli accenni di un’attitudine nichilista nel modo di cantare che, se non fossimo in Italia, oserei definire vicina alla Trap. E già: all’estero non sempre è un insulto. A volte si fonde con il post-punk per veicolare ai più giovani messaggi anti-sistema e anti-fascisti. Nel paese di Sanremo questa è utopia. Dal vivo, comunque, i Voina suonano ancora tradizionalmente punk e questa è – ovviamente – una buona notizia. E, soprattutto, alla fine del loro live, hanno detto una cosa per la quale sento di doverli ringraziare: hanno idealmente abbracciato le altre band che sono salite su quel palco che “coraggiosamente portano avanti un discorso che, in Italia, sembra diventato assurdo: le chitarre elettriche”.
Ecco, è per questo che sento di voler ringraziare il Distorsioni sonore Fest: perché hanno dato spazio a musica fresca e nuova, ma senza dover per forza uniformarsi al sound imperante al quale, a quanto pare, nello Stivale ormai bisogna per forza inchinarsi se si vuole andare avanti.
I Botanici mi hanno insegnato che nel rock – anche quello più ruvido – la chitarra la si può suonare ancora bene, con gusto estetico e tecnica. Cazzo, ho sentito degli assoli! Quanti anni era che il rock li aveva dimenticati? Insomma, il punk non è solo quattro accordi e batteria martellante.
I Comrad vendevano al banchetto del merchandising la loro musicassetta e, già per questo, non si può non amarli. Ma non solo, anche per il sound potente ma mai scontato.
I Duocane, beh: fare punk in due, solo con batteria e basso elettrico, senza far sentire minimamente la mancanza di una chitarra, è già un’idea tanto folle quanto coraggiosa. Che loro, poi, ci riescano benissimo, vuol dire che sono davvero bravi, fidatevi. Se vi dico “Primus” vi ricorda qualcosa?
Dispiace solo, a questo punto, aver perso le prime due serate. Ci si vede l’anno prossimo!
Testo e fotografia di Manlio Ranieri