E pensarci poi: tutto l’amore che mi manca. Quello bovarista di sporche fiabe metropolitane, tortore e pastelli. Quello dell’orlo estremo del possibile, di vertigini e occhi liquidi. D’ammirazione costante come il numero di particelle in una mole, come le stagioni del secolo scorso. Leggendo di Grace Jones e delle sue paillettes. Supplicando un paladino di Carlo Magno perché mi riporti tutto ciò che ho perduto. Tutta quella “sospensione dell’incredulità” che mi vestiva di bianco e meraviglie. Che mi chiamava con i nomi magici dei libri: le api furiose di potenza che irradia e “ coglioni duri”.

Ma una vedova nera è sempre a lutto. La bava di ragno è così sottile da passare inosservata: una strana filosofia dei recessi, ricamata lungo i soffitti, in tutti gli angoli e le alcove. La pioggia delle vite altrui mi sfiora i trafori, lontana e inutile, spesso tediosa, irritante, insopportabile; a volte, in scatti d’ira, mi entra in casa, si rapprende alle sottili ed effimere travi che dovrò ricostruire dalle viscere, instancabilmente. Con la rassegnazione delle vecchie scarpe dimenticate in cantina. E la penna della perfettibilità che guida nel lavoro di cesello, per beffare il futuribile agguato: come tutto è una resistenza. Intreccio i fili della mia  gabbia-trappola. Il lavorio e l’attesa: una piccola Penelope senza gloria, senza misericordia.

Ho osato sfidare gli dei, all’inizio dei tempi, ma non c’è vittoria per chi non si conosce. Peri chi si lascia andare.

La religione delle ostriche mi ha salvata. Per questo io ho dovuto e devo ammazzare: ho un debito con le ostriche. Un debito che non posso ripagare. Ed è sempre un immenso sacrificio. M’avessero cucito addosso un paio d’ali, un rostro in bocca, zanne lunari, artigli da idra. M’avessero fatto sputare fuoco o trasformare in pietra. Potessi essere nuvola, piuma, baco da seta. Potessi rubare dentini ed esaudire desideri. Potessi tornare sposa come nei sogni larvali di bambina, come quando i libri disegnavano quel futuro mai nato, puro come le intenzioni e il condizionale presente.

Ma io, io sono la vedova nera: vivo ruderi e sepolcri. Non conosco che centimetri, ottagoni e cantieri. Tutto è sempre troppo lontano dal soffitto. Tutto sempre altrove. Trattengo particolato ed ectoplasmi: una marea di piccole cose.  Il resto mi trapassa da parte a parte. Svanisce, dimentica, distrugge, asseta. I miei monumenti ai caduti: un immenso mausoleo in divenire. Gli ossari di tutte le parole sussurrate al chiaro di luna: olocausto perverso di pseudo-martiri in cerca di espiazione. E questo cavalcare i margini, di luogo in luogo, lungo le cuciture di uno zaino sdrucito che si rimpicciolisce col tempo, filtrando l’essenziale. La planigrafia dei cimiteri in tasca, qualche stanza azzurra e certi santuari, certi boschi. Guardo tutto da mille occhi e poi fingo di dimenticare.  Trascinando infiniti verticali che mi uccideranno, prima o poi. Scheletri di speranze morte, nuovi viaggi da cominciare. Con la rassegnazione elettrica del “non ancora”, la coniugazione impropria del possibile, i versi a memoria e le poesie mai scritte. Una vedova nera è sempre a lutto, per questo riconosce i colori. Spesso non li sopporta perché forse non son quelli giusti. E deve dirlo alle ostriche. Deve seppellirli e ripartire. Così, io , che sono la vedova nera, vivo d’ipotesi e asterischi. Di cose minuscole. Di tutto ciò che dura un giorno e poi chissà. Una dolcissima amarezza da eremita, tessendo un arazzo senza fine pieno di vuoti: la mia rete, il mio retaggio. Ero forse di un’altra sostanza, all’inizio dei tempi, ma l’ho dimenticato. Chissà se un giorno potrò ricordare.

Forse no. Ma non importa.

Delia Cardinale

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