Quel terreno è sempre stato croce e delizia, per la mia famiglia: è impervio, pietroso, pieno di asperità, saliscendi che non permettono di manutenerlo al meglio; è stretto e lungo e, dalla strada, s’inerpica per un centinaio di metri verso il nulla. Gli alberi sono sparsi a casaccio, radi, selvatici e selvaggi. Non è un terreno che produce molto olio.
Ecco, sì: quel terreno è poco produttivo ma – mio padre lo diceva sempre – è quello porta le olive della qualità migliore. Insomma: quando si decide a produrre, lo fa con tutti i crismi.
Ma non è solo questo. Il suolo si allunga da ovest verso est. Gli ultimi alberi, quasi dimenticati in fondo, poco prima del muretto a secco che segnala che da lì in poi non siamo più niente, sbarrano la vista al vuoto che c’è dietro. A oriente.
Le olive si raccolgono d’inverno, quando le giornate sono corte, dunque per non perdere tempo conviene arrivare sul campo a primissima mattina.
Quel che succede è che il sole sorge proprio dietro quegli ultimi alberi, e la raccolta inizia con una dose di poesia che si irradia nell’aria attraverso le fronde, tagliuzzata in lame di luce e stesa sull’erbetta madida di rugiada come un tappeto morbido.
Quel terreno è un po’ come me: non è molto produttivo, ma ha un senso della bellezza che i campi intorno non sanno. E, quegli anni in cui si risveglia fruttifero – nonostante venga spesso trascurato, lasciato allo stato brado – ci dà l’olio migliore.

Noi cerchiamo la bellezza ovunque
E passiamo spesso il tempo così
Senza utilità (quella che piace a voi)
Senza utilità (perché non serve a noi)

Ricordo bene le sensazioni della prima volta che sono andato a raccogliere: la luce di brina attraverso le foglie, il freddo accattivante, che s’intrufolava nel sudore del lavoro manuale, la meraviglia della scoperta, quella patina unta sulle mani a sussurrare che le cose stavano andando bene, che il raccolto sarebbe stato buono, la soddisfazione della prima bruschetta condita col frutto del mio sudore.
Sono cambiate tante cose, da quella prima volta.
Ma la terra no, la terra rimane immobile nella sua ostinata bellezza, s’impregna sempre delle stesse storie che il mio procugino racconta su mio padre, quasi a evocare il suo fantasma e farlo stare lì con noi, seduto su una pietra, accanto al fuoco, a correggere i compiti dei suoi alunni, come era solito fare.
Ci sono tanti fantasmi, che alla mattina presto vengono su dal terreno insieme alla rugiada fresca e densa. Io non ho paura di quelli che salgono da lì, perché conosco quel terreno, lo so non avvelenato, puro, intenso, e i suoi frutti non saranno mai marci.

Testo e fotografia di Manlio Ranieri

 

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