Occhi neri di buio e paura riflessi nell’acqua al tramonto.
I miei.

 

Cesellati in un viso scarno di donna che stento a riconoscere. Il mio.
Fame e piedi ammuffiti in questa giungla che sembra una tana. La mia.
A testa china nel fiume, nascosta tra la boscaglia, lavo ciò che è rimasto della mia libertà: i lunghi capelli neri della mia razza, vezzo in oltraggio al regime.
Bastardi, con la vostra certezza incrollabile di possedere la verità! In nome di un’ideologia, fedeli a Pol Pot. Che nome è Pol Pot per un dittatore folle! Uno scherzo in questo mondo, se esiste ancora un mondo al di là di questa merda, di questo pantano. Sembra il nome di un simpatico burattinaio che arriva al villaggio per far divertire i bambini. Invece no. Tu i bambini li armi a ribelli se non li ammazzi.
Il tuo nome Pol Pot lo hai inventato. Nascondi la tua vera identità alla massa e allora mi nascondo anch’io.
Io, Kyha senza più cognome, perché il mio cognome l’ho visto andarsene negli occhi di mio padre quel giorno che è ormai inciso, indelebile di rosso sangue nel mio animo.
Arrivaste all’alba, lo strappaste alla vita. Perché? Perché!? Come fai Cielo a non piangere e urlare? Fallo almeno tu! Io qui se urlo e piango mi scovano e mi trucidano. Era un intellettuale mio padre, una persona colta. Eccolo il suo difetto. Un cervello pensante in una giungla di menti allineate e perverse.
Rieducazione al lavoro manuale l’avete chiamata. Chiudete le scuole, serrate i negozi, abolite il denaro, la tv e i giornali. Deportate i monaci, avere una fede vi spaventa, nei monasteri rimangono solo echi di antiche preghiere. Uccidete i professori, gli intellettuali, solo il saper leggere e scrivere è un ostacolo alla vostra conquista. Deportate chi porta gli occhiali, ai vostri occhi simbolo della ricca borghesia che vede troppo bene le vostre tirannie. Lavoro forzato nei campi, condizioni disumane, crudeltà. Divorate tutto ciò che è umana libertà. Veniamo uccisi per un non nulla. Non più abbracci in pubblico, sorridere è reato e i vestiti colorati uno stinto ricordo.
Ribelle a tutto ciò vivevo. Io Kyha, figlia di un padre che mi indicò la fuga prima di abbandonare la sua disperazione nelle vostre mani. “Fuggi tra i i ribelli, sii fantasma tra loro, la giungla ti aiuterà. Ti salverai.”
Scappai, un’assurdità teatrale mi invase gli occhi: cadaveri dappertutto, piaghe, infezioni, urla. Una centrifuga di odio, di desolazione.
Un’amara desolazione. La mia.
Un raggio tiepido mi accarezza il viso. I capelli bagnati ricadono sulle spalle.
Torno al presente. Io riflessa in religioso silenzio: “Kyha, ci sei ancora?” mi chiedo.
Resisti, risponde il fiume.
Mi guardo, nel vestito nero abbottonato fino al collo, maniche lunghe, casacca d’obbligo. Nascosta nella giungla del nemico ora la casacca mi aiuta a rendermi invisibile a chi me l’ha appiccicata addosso. Ho trovato rifugio tra rovine e grovigli di radici, vicino al tempio buddista che silenzioso ora è mio compagno.
Odo litanie lontane nel tempio, sarà il fiume che placido sussurra e soccorre la mia nuova speranza.
Io aspetto. Aspetto il giorno in cui potrò urlare al cielo, al vento, a me stessa “ io sono Kyha, Kyha Kobén, studentessa letterata della città di Siem Reap e indosso la gonna a fiori sotto questo nero lutto.
Porto gli occhiali come mio padre.
Dott. Soultay Kobén, professore, intellettuale e padre.
Il mio.

 

Uno scritto di Alice Boffa prodotto durante il nostro corso di scrittura online Mi illustro di luce vivace

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