Fino a pochi anni fa si diceva che il dialetto era la lingua dei cafoni, dimenticando che l’Italia ha una grande tradizione di letterature dialettali. Tradizione tutt’altro che estinta e lo dimostrano opere contemporanee come Fiore che ssembe, esordio letterario del linguista Giovanni Laera: una sequenza di ventisette poesie in dialetto nocese pubblicata recentemente da Pietre Vive Editore.

Quando è nata la tua vocazione poetica?

Le mie prime prove poetiche risalgono ai tempi delle medie. La primissima poesia la scrissi a undici-dodici anni e ricalcava il Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo De’ Medici: piacque molto ai compagni di classe. Intorno ai vent’anni ho scritto moltissime poesie, poi è seguita una pausa di riflessione. Quando sono tornato a scrivere, ho scelto il dialetto. Per fortuna non ho pubblicato da giovane: ho avuto così il tempo di trovare il miglior modo di espressione possibile, senza risentire troppo delle influenze letterarie giovanili (Penna, Caproni, Sbarbaro, Gozzano, Saba). Trovare la propria voce è in fondo l’obiettivo di ogni poeta.

Com’è nato questo libro?

Le poesie sono state scritte abbastanza di getto, in un periodo tra il 2016 e il 2017. All’inizio dovevano essere solo la prima sezione di un altro libro, poi mi sono reso conto che i testi avevano uno sviluppo e coerenza interna che meritavano un libro a sé.

Questa ispirazione si è esaurita, adesso stai scrivendo cose completamente diverse, oppure hai intenzione di continuare su questa falsariga?

Dopo aver scritto l’ultima poesia del libro, ho avuto la sensazione di un congedo definitivo dal dialetto. Credo di averne tirato fuori tutte le possibilità, anche a livello semantico.

Hai scritto anche un dizionario sul dialetto.

Sì nel 2014 con Mario Gabriele. Ho fatto anche una tesi di dottorato sui secondi nomi e soprannomi pugliesi dal 1000 al 1300, studiano i riflessi lessicali, e ho collaborato col Centro Studi sui dialetti apulo-baresi.

L’essere un linguista come influenza le tue poesie?

Dietro le mie poesie c’è un lavoro di ricerca. Mi sono occupato in questi anni quotidianamente del dialetto con uno studio fonetico, morfo-sintattico, lessicale e semantico. Il dialetto per me è la lingua madre, era la lingua di mia nonna con cui sono cresciuto.

Dal tuo libro sembra trapelare un sentimento tragico della vita, forse non eri molto di buonumore quando le hai scritte.

È il diario di un anno certamente molto particolare della mia vita. Il libro è quasi un poemetto, ma si può leggere anche come un romanzo in cui il soggetto arriva quasi a svanire. E, prima di scomparire, cerca una parola. Spero di averla trovata, proprio come testimonianza.

Sei soddisfatto dell’editore scelto?

Sì, è un editore serio, giovane, che ha cura dei dettagli. Molto attento a come il libro si presenta dal punto di vista grafico: per la copertina abbiamo scelto un lavoro dell’amico Vittorino Curci, grandissimo poeta ed artista, peraltro mio concittadino. Sono molto soddisfatto del risultato, penso ci sia stato un bel lavoro dietro: Pietre Vive Editore è una bella realtà pugliese.

È disponibile anche un audiolibro, che è possibile scaricare gratuitamente dal sito dell’editore.

Tutti i libri di poesia dialettale dovrebbero essere accompagnati da un audiolibro, per consentire al lettore di ascoltare le sfumature a livello fonetico, l’intonazione, la cadenza del dialetto e la sua musicalità. È un libro molto intenso, visionario, ma sorretto da un dialetto dolce.

Una cosa che mi ha colpito è che le poesie sono criptiche, fortemente simboliche.

Il libro si fonda sull’ambivalenza. Cerco di rispondere al titolo di quella poesia di Pasolini posta in esergo: mostro o farfalla? Il tema del contrasto, del conflitto interiore viene affrontato in maniera non dialettica. Il linguaggio poetico ha la capacità di passare dall’aut all’et, superando il principio di non contraddizione. Ma invito il lettore a non cercare significati reconditi, bensì a prendere le poesie alla lettera. C’è una vena più espressionista che surreale: Georg Trakl, Georg Heym, Gottfried Benn. E se c’è del surrealismo, è quello di Bodini, più spagnolo che francese. C’è anche del grottesco: Lynch, Kafka… Ma non mi interessa citare, bensì fare un percorso di ricerca ed esistenziale, e per questo bisogna passare attraverso le forche caudine; poco importa se popolate da animali grotteschi, figure di sogno o di ricordo. L’importante è attraversare la grande acqua, come è scritto nell’I Ching. È anche un libro estremamente onirico.

Come hai tradotto le poesie dal dialetto all’italiano?

Non ho voluto tradurle in italiano standard, è stata quasi una riscrittura. Le poesie nascono tutte in dialetto e inizialmente pensavo di non tradurle affatto. Poi ho deciso di evitare una traduzione letterale o letteraria; è stato un adattamento o, come dice Lino Angiuli, un trasporto.

Quando presenterai il libro nel tuo paese?

Presenterò il libro venerdì 5 luglio a Noci: ci sarà un evento con l’editore Antonio Lillo, Vittorino Curci e le musiche di un mio amico cantautore molto bravo, Giuseppe Liuzzi. Ci tengo ad aggiungere che è stata importante anche l’esperienza della libreria Millelibri. Alcuni versi, infatti, li ho scritti proprio qui – in una fase di revisione e di rilettura. La possibilità che questo spazio offre di incontrare ogni martedì pomeriggio altri poeti è stata un’occasione importante di confronto e riflessione.

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