Il personal computer è senza dubbio indispensabile, per ogni attività che concerne le umane abitudini e i quotidiani doveri. Il rapporto quasi simbiotico con la tecnologia, rende quasi impensabile una vita senza elettrodomestici, orologi digitali, timer, riscaldamento automatico, frullatori, sistemi di allarmi intelligenti. Tutto ciò facilita le nostre attività quotidiane e le velocizza; questo vale soprattutto per gli ambienti d’ufficio , per i luoghi di lavoro in generale. I computer hanno implementato le prestazioni normali dei dipendenti, oltre a potenziarne la qualità e la complessità. L’elettronica è parte della nostra vita, come un accessorio necessario da cui non si può prescindere. Gli anni ottanta rappresentano il periodo d’oro di sviluppo tecnologico, come ponte tra gli anni settanta (ancora poco orientati alla cultura globale) e gli anni ottanta come simbolo di sviluppo, innovazione, salto verso la moderna società dei consumi. Gli anni ottanta sono da sempre oggetto di fascinazione, per la musica, per  i film, per lo spirito di quegli anni. Peculiare abbinamento quello tra tecnologia in fase di sviluppo e cultura musicale. Negli anni ottanta il computer diviene oggetto di uso domestico (da cui l’espressione “personal” computer), non solo macchina per il calcolo di grandi società o per usi militari. L’introduzione del personal computer negli ambienti privati provoca sicuramente una reazione positiva rispetto alla sua complessità di operazioni, ma anche un certo senso di curiosità mista a paura per chi sa a malapena come accenderlo. Oggi tutti sappiamo usare un computer, sono davvero pochi quelli che non accedono alle funzioni basiche (scrittura, visualizzazione contenuti multimediali, navigazione, giochi). Per questo motivo, l’atteggiamento che si aveva negli anni ottanta adesso è oramai superato da una chiara consapevolezza dell’utilità (e non della pericolosità) del personal computer.

Un bel film che racconta questo rapporto tra tecnologia – ambienti domestici – rapporti interpersonali è Electric Dreams (1984, regia di Steve Barron, fotografia di Alex Thomson). Il titolo è già di per sé significativo: “electric dreams”, ovvero sogni  elettrici; primo interrogativo, chi fa sogni elettrici? Chi non ha una mente come la nostra, chi non ha un cervello biologico, bensì elettronico. Le macchine fanno sogni elettrici, in quanto frutto di un’attività onirica non risultante da un apparato organico, ma da una rete di circuiti. Electic dreams è quindi un film che ha (nonostante le apparenze) come protagonista un computer. Da qui il titolo. Sono i sogni di un computer l’oggetto del film. Oltre a lui, ci sono Miles Harding (architetto) e una suonatrice di violoncello Madeline Robistat. Miles (Lenny Von Dohlen)  è dipendente di una società per la quale progetta oggetti architettonici di secondaria importanza, coltiva in segreto il progetto di un mattone che resiste ai terremoti. Abita nello stesso palazzo di Madeline.  Miles viene invitato da un amico a comprare un apparecchio elettronico, si reca quindi in un negozio di elettronica e compra un computer a tubo catodico. Lo porta a casa, legge le istruzioni, fa partire i programmi di default; avvia un software capace di controllare tutti i dispositivi della casa (frullatore, porta, televisore, telefono). Un po’ alla volta comprende l’enormi capacità della macchina, e trova gusto nell’utilizzarla. Intanto, da poco si stabilisce nel suo palazzo la vicina Madeline (Virginia Madsen) Tra i due nasce una storia d’amore, accompagna da ballate tipiche anni ottanta. Tra i due c’è il computer. E’ il vero protagonista del film, sia perché progressivamente rende la vita difficile a Miles (che credeva che un computer non potesse davvero “pensare”), sia perché si innamora di  Madeline. Una macchina si innamora di una ragazza, cosa strana. Il computer prova gelosia e fa di tutto per separare Miles da Madeline.  Il film termina con il corto circuito del computer e Togheter in electric dreams, di Philip Oakey.

Giovanni Sacchitelli

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