Quando ero in quarta elementare mio padre tenne in classe una lezione sul lavoro e disegnò alla lavagna una turbina per spiegare che lavoro fosse quello dell’operaio. Un’intervista divertente che mi fece provare da presto un sentimento di fierezza che non ho più dimenticato, e che mi fece capire perchè in camera mia  qualcuno avesse attaccato il poster della FIOM.
La domanda oggi non è più “che lavoro fai?” Come chiese a mio padre il mio compagno sentendosi dire dalla maestra “Alessandro, si dà del Lei, in questo caso!”
La domanda oggi è “stai lavorando?” Perchè la temporaneità e l’immanenza della fine di qualsiasi contratto sono lo spauracchio con cui si sta imparando a convivere facendoselo amico. Ti devi fare amico uno che vorresti vedere tremila miglia lontano da te. Che soluzione strategica, eh? Uno che ti fa affannare da inizio a fine mese, che ti inganna scommettendo sulla testa dei tuoi figli. Uno così mi tocca tollerare per affrontare il quotidiano.
In questo periodo di folle ricerca per tutti e scelta degli studi che si rivelerà una condanna a lasciare l’Italia,
c’è chi si permette il lusso di scegliere di non lavorare, in un magma di lamentela e finta povertà che appesta il quotidiano altrui. No, non dite che non ci sono. Si vedono e si sentono. E parlano. E votano.
Auguri a tutti quelli che vivono il lavoro non come una maledizione o una stasi, ma con l’anelito alla costruzione di un’identità e di un sogno grande o di tanti microsogni per sè e per chi ama, nonostante tutto.
Auguri a chi lo stipendio lo deve aspettare perchè non arriva tutti i mesi, a chi assume un giovane scommettendo su di lui. Auguri ai ragazzi dei call center che da lì se ne andranno.
Auguri a chi ha lavorato una vita e adesso riformula il suo quotidiano su una pensione maledettamente più bassa di uno stipendio.
Nessun augurio per le mantenute, per le donne senza ambizione e senza cervello che sono di ostacolo alla vita di quelle che un cervello non solo ce l’hanno ma sanno renderlo prolifico.
Nessun augurio a chi sfrutta il tempo e polverizza la dignità di chi si trova in un bisogno disperato.
Nessun augurio a chi signora ma lei ha già fatto figli? Eh no, lei ha figli, verranno sempre prima del lavoro. Vale a dire il suo utero è ancora attivo? No grazie. Il suo utero non è più attivo? Allora come può essere materiale scopabile? Ah, lei ha un utero? Grazie, le faremo sapere.
Nessun augurio a chi “Ti occupi di cultura? Sì, vabbè, per hobby, ma per lavoro?” (Che poi, per inciso, chi cazzo ce li ha più gli hobby?)
Auguri a tutte le donne che devono mantenere la famiglia da sole, perchè gli uomini spariscono e lo Stato gli concede di farlo.
Auguri a quegli uomini che invece restano in ogni modo, e ispirano e coltivano la presenza.
Auguri a chi di lavoro fa il cerca-lavoro per gli altri, a chi ce la fa ad entrare a fine mese alla Western Union e uscirne con quel macigno nel petto che comincia a diventare più leggero. Perdonateci. Poteva essere un Paese dove creando lavoro si poteva creare formazione e tutela per voi, assistenza in un cammino di crescita e professionalità per tutti insieme, per tutti voi tacciati per fascia debole ma che deboli non lo siete per niente. Poteva essere un cammino per educare lo sguardo a un cambiamento reale e possibile. Non siamo quel Paese. Per niente. Per ora.
Auguri alle famiglie che hanno perso un caro mentre stava lavorando. Auguri a chi il lavoro gli viene di maledirlo ma non lo fa. Auguri ai ragazzi dell’alternanza. Siate impavidi. 
Auguri ai nostri nonni che ci hanno insegnato cosa volesse dire lavorare la terra bassa con la testa alta.
È la festa di chi il lavoro se lo deve inventare, esplorando con tutto quello che sa fare un mercato che è una fossa di serpenti. È la festa di chi impara a fare quello che pensa di non saper fare.
Lavorare deve tornare a essere un diritto di tutti, in un’Italia che si fa presenza e tutela e protegge ogni cittadino.
Ritroviamo il coraggio di indignarci e di non svenderci mai. Soprattutto ritroviamo il coraggio di inventare e ripensare. Dal piccolo e dal basso. Le soluzioni arrivano solo così. E allora buon lavoro a tutti noi.

Antonella Petrera

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