Prima di rendersi conto di ciò che si è rotto c’è un attimo in cui il fragore delle cose che vanno in frantumi produce alle nostre orecchie uno schianto gradevole.

E’ il suono dell’imprevisto.

Pochi istanti in cui ci si trova sospesi tra la possibilità di ciò che potrebbe essere e la presa d’atto di ciò che è accaduto.

E’ il momento del possibile.

Staccando la tazzina dalle labbra, l’udito vigile, lei girò la testa a sinistra, cercando con lo sguardo, tutto sembrava in ordine, eppure ne era certa, qualcosa si era rotto.

Guardò sotto il tavolo, negli angoli più nascosti, in bagno e in soffitta, persino sotto il lavandino. Ma niente.

Controllò dappertutto, in casa non c’erano cocci.

Il suono era giunto chiaro alle sue orecchie, ma da cosa fosse stato originato rimaneva un mistero.

Si mosse con cautela, nel dubbio che qualche invisibile pezzo di vetro le finisse sotto il piede nudo.

Ma solo allora iniziò a farsi strada nella sua testa l’idea che si, qualcosa si era rotto, non in casa, ma dentro di sé.

Un crack secco, netto, non sapeva se all’altezza del cuore, dello stomaco o dei polmoni, ma di certo un piccolo frammento si era spaccato, una crepa sottile si stava allargando.

Chiunque avrebbe provato smarrimento di fronte a tanta consapevolezza, lei invece si sentì quasi sollevata.

Qualunque cosa fosse, le stava dando l’opportunità di un nuovo inizio, la scelta di lasciare i pezzi rotti, mettere un punto e ripartire da quella frattura che non aveva alcuna voglia di rincollare.

Chi ha stabilito che uno strappo va ricucito?

Lei non aveva nessuna intenzione di farlo, era proprio da quella falda che iniziò a respirare, ad urlare che mai più avrebbe chiesto scusa per non aver realizzato progetti che altri le avevano cucito addosso. Era stanca di modulare la sua felicità sull’umore degli altri, a cui non avrebbe più concesso il potere di determinare l’idea che aveva di sé.

Da quella breccia cominciarono a fluire tutte le parole che erano rimaste strozzate lì in fondo alla sua gola, soffocate per così tanto tempo che si erano radicate nel suo torace fino ad arrivare al suo grembo vuoto.

Ma adesso quella bolla di vetro, che aveva trattenuto il suo respiro si era infranta, ne fuoriscirono le voci ancestrali di amazzoni, di folli Medea, di guerriere, di eretiche, di contadine e partigiane, di puttane e principesse.

Ormai dalla sua ferita sgorgavano, come in un incontenibile conato, parole rimaste imbavagliate per anni.

Salì sulla sua triumph e corse verso il mare.

L’asfalto nero scorreva liscio e il vento freddo le colpì il viso, fino a farla lacrimare.

Davanti a quel vuoto e a tutta quella profondità urlò, urlò così forte da graffiarsi la laringe, urlò come non aveva mai urlato prima, urlò fino a far sanguinare le parole finora taciute.

Il battito del cuore rimbombava nelle orecchie, il petto si sollevava al ritmo del respiro affannoso, si accasciò  a terra e pensò a tutte le volte in cui si era definita una donna per cui non vale la pena.

Si vergognò di quel pensiero e promise che non si sarebbe più perdonata tanta ferocia verso se stessa.

Era vero, qualcosa si era irrimediabilmente spezzata in lei e da quella fessura finalmente zampillava libertà.

foto e testo di Nicla Gadaleta

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