Un film di Carlo Verdone del 1984, per la regia di Enrico Oldoini, arrivato nei primi anni ottanta poco dopo le trovate comiche di Un sacco Bello (1980), Bianco, rosso e Verdone (1981), Borotalco (1982), Acqua e Sapone (1983) fresco di un successo che lo aveva consegnato al mondo della commedia all’italiana con una leggera vena di pessimismo cosmico, che fa già rima con comico, come il naso a patata del figlio di Mario Verdone (primo docente in italia di storia del cinema), che univa quelle sue idee vaghe sulla cultura (quando in Cuori nella tormenta Sonia legge i suoi pensieri e le sue poesie, Verdone unisce ancora una volta in quella veste armonico-speculativa tra il basso e l’alto, cfr. Bachtin in Estetica e romanzo, più volte essenziale per la comicità italiana, quella di Gassman ne Il Sorpasso “come se chiama quel poeta un po’ frocio? Garcia Lorca! Ma io alla poesia preferisco la musica, è più diretta!”, e qui è palese l’unione tra la cultura alta e il basso quotidiano, in un’armonia che inizia già dal tipo di amicizia tra l’individuo della court e quello della ville, tra uno studente di giurisprudenza e un procacciatore d’affari, almeno nella sua posa esterna simile all’abito speculativo dell’altro protagonista, eppure incredibilmente distante, nonostante i tentativi di Vittorio Gassman di sembrare un bravo ragazzo, tentativo subito frenato dalle sue abitudini volgari (nel senso di proprio del vulgus) come il credito, l’arroganza, il fuggire dalle situazioni senza una pacata accettazione dello stato di cose, come quella dello studente di giurisprudenza, che accetta passivamente ma con serenità le leggi innumerevoli e dense dei suoi codici e non pensa nemmeno di superare questo suo sacrosanto dovere, in virtù della sua essenza di pensatore autentico, di rappresentante della cultura alta, contro il becero Gassman, vitellone e fanfarone, poco degno sicuramente del Lorca denigrato, che cerca come fece Alberto Sordi, come fece Carlo Verdone, di unire in un abile inganno, come il gioco delle tre carte dei napoletani, la cultura delle nozioni, agli atteggiamenti dell’uomo pratico (per quanto riguarda Verdone mi vengono in mente Angelo Infanti in Borotalco, o il protagonista di Troppo Forte quando dice “sono un po’ peones, la sera sto qui, mi rilasso butto giù appunti”) del tutto ignaro di cosa voglia dire possedere cultura, che è sacrificio e vissuto del senso di realtà sereno e non alterato; si associa sempre la nozionistica al vissuto quotidiano ad essa spesso associato, leggere un romanzo significa sempre avere un determinato atteggiamento esteriore di rapimento mistico, così come l’avvocato o il professore sono eleganti proprio perché sono colti, e bisogna essere impostati per ricorprire un ruolo del genere; ignorando che la nozionistica è del tutto estranea dalle modificazioni successive dell’individuo superficiale e attaccato a quella seconda natura, che è l’abitudine.

Alberto Sordi, come Carlo Verdone, ha cercato di unire i due estremi dell’uomo, la teoria e la pratica, sotto la buona stella della commedia, come non avere presente il motto di Vacanze intelligenti “noi non c’avemo conflitti, noi c’avemo solo fame”, viene da ridere, ma non dovrebbe essere così.

Il mondo della teoria, separato da quello più umano della pratica, non vede possibili rivolte, sia nell’atteggiamento mentale, sia nella mancanza di colore emotivo, alle nozioni che si presentano in maniera disparata e molteplice, il mondo della teoria non ride. Penso che ogni intellettuale autentico abbia riso in fondo, anche se per quell’accettazione democratica di facciata non potrebbe sembrare, delle letture dantesche di Benigni, dopo che quest ultimo aveva inzaccherato le campagne sperdute di Berlinguer ti voglio bene dei peggiori sproloqui, autentici esempi di volgarità gratuita, profanatrice del sacro, e quindi, dell’alto. L’italia ignorante e audace, come il Gassman del Sorpasso, ha accolto subito il tentativo di unione dei due poli come un miracolo autentico, finalmente si può ridere e pensare, come quando Luciano De Crescenzo parla del tempo o dei filosofi e ottiene accettazione, ora la filosofia è facile, si può anche ridere dei maestri del pensiero, e quest accettazione è condivisa e accettata da tutti, non potrebbe essere il contrario, unire il mondo della teoria al dialetto napoletano, opera geniale, quanto volgare e inutile.

Inutile perché non c’è conciliazione tra i due estremi dell’uomo, sicuramente non in Italia, patria della commedia per definizione, un’unione inattuabile tra il mondo serio e quello che lo è, ma in maniera blanda e grottesca.

Ancora una volta, è un italiano come Massimo Troisi, a cercare questa unione, tra la cultura ufficiale e quella di strada; ad esempio in Ricomincio da tre, emblema, a mio parere del superamento del senso di realtà (“no io al mio paese lo avevo pure un lavoro..sono qui a Firenze..per piacere, no perché sono un emigrante”) in una direzione più lieta e serena, conciliante dunque l’abitudine più elevata del viaggio fine a se stesso con quella pratica e materiale della Napoli di strada, sulla quale grava l’annosa questione della disoccupazione ed è un guaio non avere un introito economico, peggio poi fare un viaggio di piacere, che non porta a nulla se non a soddisfare delle voglie liete di evasione.

Troisi, per quanto possa essere ritenuto un genio della napoletaneità e della commedia italiana in generale, è buon pulcinella, ovvero può essere ritenuto davvero innovativo e originale ad un occhio poco attento, che non vede nella sua maschera ingannevole il ragazzo di strada di San Giorgio a Cremano, mai abbastanza sincero e trasparente, forse questa sua maschera dialogica (Bachtin) tiene a bada per poco il vero Massimo soltanto nella sua opera prima, e già lì una Fiorenza Marchegiani svela l’inganno: “secondo me tu non sei veramente timido, ti mascheri dietro il problema della timidezza”, ecco l’essenza. L’unione tra le due culture, quella alta e quella bassa di bachtiniana memoria, è opera di un Troisi che non convince mai abbastanza, nei film successivi a Ricomincio da tre, la fronte e gli atteggiamenti di un uomo maturo vengono fuori in tutta la loro palese insincerità. Vedi ad esempio Scusate il ritardo o Pensavo fosse amore invece era un calesse.

L’unione dei due ambiti della cultura è in Ricomincio da tre la citazione da Montaigne (“chi parte sa da che cosa fugge ma non sa che cosa trova!” detta da Lello a Gaetano con tanto di vocali aperte e poi riferita da quest ultimo al simbolo della cultura vera e in particolare della scrittura che giustamente ammonisce il finto timido Massimo “ma che fai parli con le frasi degli altri?” e Gaetano “Canusc a Lello tu?” ma questa risposta gaia e serena non è soddisfacente, come l’idea di un viaggio di piacere per un Napoletano, dunque il fallimento dell’unione) oppure lo stesso atteggiamento remissivo di Gaetano davanti alla cultura in generale, troppo facile dire “io non leggo” oppure “a frnut u libbr?”; certo Fiorenza, essendo donna e soprattutto essendo fiorentina accetta con serenità questa ingenua domanda di sottomissione timida (ma di un timidezza che Troisi, ripeto, non ha, sia nella vita reale, sia nel cinema, già in ricomincio da tre si rivolge ad un Renato Scarpa, davvero imbarazzato, qui coincide maschera e persona, come l’amico che fa il verso del treno in Un sacco bello ) ma dentro di sé non ha scusanti per l’ignoranza. Ancora una volta in Ricomincio da tre è lo stesso inizio del film con Gaetano che viene gentilmente invitato (l’urlo di Lello Sodano è il contrasto tra una volontà più alta di guardare un film e i modi gretti dei ragazzi, ultra trentenni della Napoli povera, che cerca in maniera sottomessa di superare il concreto delle strade per poi trovarsi inadatta al mondo delle volontà più mature, quelle del cinema.

Dei piccoli, che cercano di fare dei grandi, perché di piccoli si tratta, non abbastanza adeguati alla società che li circonda, data la mancanza di occupazione e l’età avanzata. Anche l’attenzione all’odore oppure il problema di non mostrarsi geloso è un tentativo della Napoli, ma anche dell’italia tutta ignorante, di rapportarsi serenamente alla Firenze degli artisti veri, della mentalità aperta e della profondità, che supera senza fatica l’attenzione di Gaetano per l’odore nella stanza, prima che la scrittrice venga a trovarlo. Chi è Renzo Arbore che balbetta mentre cerca di parlare dei gironi infernali della cultura alta dantesca se non il tentativo fallimentare di unione delle due italie? E mariangela melato, spesso, lo rimproverava per la sua poca cultura. I lamenti di Totò non servono comunque non è scusato, il mondo della nozionistica è separato da sempre da quello del vissuto quotidiano. Si può certo ricordare con i personaggi di Carlo Verdone, il professore rigoroso e nevrotico, o il prete che accetta le diversità, ma si va poco lontano, pur essendo Verdone ad un gradino più alto nel podio, laureato in lettere moderne, la sua maschera ha un fondo reale di conoscenze poi messe in discussione e in ridicolo nei vari caratteri da lui interpretati, come il venditore di enciclopedie di Borotalco che improvvisa al colloquio di lavoro una melodia di musica classica, unendo il gesto tipico italiano dello schioccare le dita in modo intuitivo e diretto con il tema musicale colto, distante dalla commedia in sé e forse da Verdone stesso. Ed è ancora in Acqua e sapone che lo pseudo padre Spinetti si arrampica sugli specchi per sfuggire agli affondi della cultura reale e della teoria religiosa. Nello stesso cuori nella tormenta, qui oggetto di consiglio per la visione, gli esempi di detronizzazione (Bachtin), abbondano, a partire dall’ambito più prettamente paesaggistico, la splendida Porto Venere, di poco distante dal famoso golfo dei poeti (Lerici), il mento della Liguria dei cantautori, della cultura fredda, dell’anti-italia; dove sussiste il contrasto? Tra il faccione ben rasato di Verdone e il grottesco di Lello Arena e il sublime di quei posti di mare così fini e poco tipicamente italici, o ancora, tra il nome di Verdone nel film (Walter, da Lello Arena pronunciato Uolter, altro contrasto tra la cultura di strada e quella più alta della conoscenza dalla lingua inglese e della cultura ad essa associata) e il personaggio in sé, pallone gonfiato, spaccone spavaldo; altri contrasti sono quello tra il tema della marina militare, con le sue uniformi alte e il riempimento, lo vedete Verdone un militare? Io no, e lui poi se ne accorge, infatti Walter è nel film un subdolo sottufficiale, un altro ossimoro è quello che si crea tra l’amore in sé, tema delicato, certamente non adatto alla cafonaggine dei romani spesso ripresi da Verdone, e i suoi protagonisti; va bene che Marina Suma è una bella donna, però adattarle un personaggio spolverino con i capelli crespi e con un’indole poetica mi sembra inadatto, erano i sentimenti corrisposti con Jerry Cala’ in Sapore di Mare a suggellare il suo ruolo di seduttrice, ma non andiamo oltre, non può essere la classica storia d’amore tra l’ufficiale militare e la donna colta (come dice Walter all’amico “bona ma non bona, bona fine!) entrambi sono troppo piccoli per ricoprire il ruolo maturo e serio dell’amore intellettuale, romantico, come il Byron che frequentò il golfo dei poeti e che avrebbe riso del faccione di Verdone. Marina Suma è nel film un’attrice di teatro, ancora un altro tentativo di conciliazione tra le due culture, e questa avviene in massimo luogo quando Verdone applaude all’esibizione oggettivamente mediocre della sua amata. Sono ospiti non voluti, nel mondo della nozionistica vera e fredda, anti-emotiva, non italiana. L’altro contrasto è quello tra la poesia frutto di creazione, la vergogna associata ad essa (perché il vero poeta è un timido inconsapevole del suo genio, gli altri sono improvvisatori di bassa lega) i temi e la figura di Marina Suma, provinciale e non adatta, mai quanto la risposta di sottomissione di Verdone “io qui ci vedo D’annunzio sto per sempre che ritorna”. E’ un bel film ma va visto nell’ottica dello spettatore medio italiano, con vaghe azioni nel superamento della propria pochezza culturale. Verdone è impotente, nel processo che ho sopra riportato, quanto comico e rasserenante. Ritorna il personaggio del bullo che si nasconde dietro dei rayban specchiati ma che in fondo è un codardo, fa ridere perché stando dalla parte, anche noi futuri spettatori, dell’italia bassa, accettiamo senza storcere il naso, facendo finta dei sovrani della cultura alta, il suo tentativo di rivolta, del suo personaggio, ma soprattutto dell’Italia in sé.

Giovanni Sacchitelli

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