Gli occhi a fessura di un occidentale generico con le bacchette cinesi.  La curiosità del palato che tende al fine ignorando i mezzi, allegria avida di un convito venata dal cruccio della prima volta. Ti piace sorbire ogni capriccio dell’amigdala, risolvere gli enigmi e avere idee nitide come il mattino del sud. L’auriga nel sottoscala viscoso dell’iperuranio,  sempre lo stesso solco sul palmo sinistro: il martirio del cheloide che frena l’impennata. Enciclopedica memoria di rovine che deve al cavallo di destra il moto perpetuo, bianco come la costanza e il male melvilliano o il velo di Maria, unico nome di donna per l’Islam e il più grande sotto le croci. Simboli estemporanei, il cavallo e la santa. Relatività di un attaccamento alla rotta che, saggiamente, aggira gli ostacoli più alti resistendo alla fatica dell’intorno. Che se dovesse la nera sinistra guidare l’auriga – e Didone sciogliersi i capelli – si tenterebbe ogni volta il traforo senza ritegno, a costo di trascinarsi dietro  untori e ultori. Schiumando di fatica e morte certa. Ci sono sempre almeno due strade e l’auriga s’illude ambidestro: un placebo che funziona. Ma la diversità delle nature rifiuta coordinate universali e tu combatti guerre civili sulle parallele, facendo dei contrari due modi fededegni di guardare le cose, decidendo poi le più strane sintesi, sempre più complesse. Didattica dell’assurdo. Logica sensistica. Teoretica del perfettibile. Metodica esperienziale che addestra i sensi e l’altro cavallo e Didone, coprendo le faglie sotterranee di elisei e cattedrali. Vorresti svolgerti come un haiku, ma sei una cosmogonia. E quell’abbraccio sul mare di marzo, il doppio nodo di braccia e gole, nel vizio analitico che naufraga sull’onda ionica di una carezza. Cortocircuiti emotivi. Si allenta un lembo di filo spinato, per la bellezza dell’abbaino sull’ignoto. Quel sole che ammala rischiarando del giorno sidereo un solo istante. Di come l’esperienza forgia fiori e spade e decide trincee per guardarsi col binocolo. Ognuno dalla propria isola. Senza sapere quando e se si deciderà la zattera, ma non pensarci troppo perché la lentezza dell’età dilata la visione e accarezza i dettagli, anche se poi non si scende in mare. Che magari le isole si approssimano da sé- è così instabile la tettonica dei cappelli- o impari finalmente a nuotare e gridare senza paura : Terra. Che importa poi se non potrai piantare i semi da sempre in tasca.  Hai già il tuo metro quadro con le officine, i vulcani e le librerie. E ci sono i pesci e i moti astrali, la gomma pane con i fili di tabacco e milioni di pagine bianche, dopo la scoperta del chiaroscuro. E ti lasci prendere da qualche luna sinistra di levante come se non avessi la tua terra: si può condividere ormai senza più il terrore di perdere il regno, col sorriso di chi conosce il prezzo del sorriso. Una scala di grigi i cavalli liberi del tuo piccolo universo contrastivo. L’umida e indifesa lumaca, figlia della pioggia e del limo, un tempo si ritraeva soffrendo al deserto di certe dita. Ora è un riccio della terra, trapunto di spine a cui decide l’inclinazione, proteggendo o mostrando il ventre morbido e certi sguardi liquidi da lumaca. Da uno stato all’altro- s’impara dal quel 70% d’acqua che accomuna una specie. E il riccio guarda i popoli del cielo, stringendo gli occhi e dicendosi che un giorno si toglierà il mantello per seminarsi addosso un paio d’ali.

Delia Cardinale

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