In evidenza Mazzamauro e Paolo Villaggio in quel celebre Fantozzi che tanto ci ha fatto ridere e tanto ci ha fatto piangere al contempo per la facile identificazione; Milena Vucotick ha infatti definito, in una recente giornata in memoria del ragioniere, fantozzi come una parte che tutti abbiamo dentro di noi ma che cerchiamo, spesso malamente, di nascondere. Kafkiano o fantozziano, è quel momento assurdo in cui si incrociano i vettori diversi della comicità e del tragico, partorendo un momento grottesco difficile da sostenere alla vista di chi, come il super direttore megagalattico, è in regola con la ragione e aderisce pienamente agli schemi sociali. Noi tutti in fin dei conti ci sentiamo inferiori a qualcuno a qualcosa, tanto da guadagnarci la sentenza “caro bambocci lei non soffre di un complesso di inferiorità, lei è inferiore!!” , soltanto c’è chi maschera bene questa deficienza e sfodera senza requie una sicurezza borghese di facciata (la stessa che Ivano Fossati cantava in Ventilazione , quella coscienza segreta che si indossa per i pranzi di natale) e chi invece come un bambino ingenuo e sperduto, viene strangolato dal cattivo di turno. A chi non piace Fantozzi? A quelli incapaci di humor, ovvero quelli che non pensano come Bergson che uno spostamento dai canoni classici dell’armatura umana, porti inequivocabilmente al riso, in quanto questa deviazione corre via dalla natura delle cose, ridiamo di una situazione inattuale ; se ad esempio vediamo un figuro che scivola su una buccia di banana e noi stiamo lì vicino al portone ad osservare la scena, viene a crearsi una realtà comica distante da quella consueta dell’uomo che evita la banana e sale orgoglioso le scale. Si può ridere di tutto? Bachtin ci ha insegnato di si. Più che Bachtin, Rabelais nel suo infinito Gargantua e Pantagruele, è solo grazie alle avventure grottesche dei due giganti che si apprende l’arte della detronizzazione e della riduzione dell’alto al basso, ma questa è un’altra storia. Se dunque Fantozzi è da molti odiato, gli stessi che prendono le distanze, inconsapevolmente o consapevolmente, prendono le distanze da se stessi. Non siamo mica tutti in grado di fare come quel Bartleby di Melville e dire “preferisco di no”, fino addirittura a sdraiarsi in un cortile e non fare più nulla, da fare invidia ai grigi funzionari del Castello o di Amerika, entrambi romanzi dell’amato Kafka. Negli ultimi tempi c’è quasi una riscoperta in senso materno della commedia all’italiana, forse perchè ci sono canali come Iris o Rai Movie, dico in senso materno perché è difficile sostenere il peso specifico del cult; se parlo di Fantozzi, non parlo propriamente di commedia all’italiana, perché il colto Villaggio, colui che si difendeva da buon genovese elogiando la sua “cultura spaventosa”, è un fine regista, più di uno come quello di Zucchero miele e peperoncino, lì Banfi è uno degli esempi tipici del comune senso della commedia. Tuttavia pur essendo Villaggio lontano dalla commedia all’italiana, è spesso associato ad essa, e sempre in senso materno il popolino non può che ridere volgarmente delle sue trovate cinematografiche. L’atteggiamento che si ha davanti alla commedia all’italiana è lo stesso che si manifesta davanti a fantozzi. Un atteggiamento da anni duemila di accettazione derisoria. Eppure se c’è oramai chi pur trovandolo demenziale lo vede e basta, c’è chi ancora lo scansa e gli butta in testa un sacco di insulti. Lo evita per il motivo di cui sopra, perché identificandosi nel ragioniere sfortunato, non riesce a fuggire da se stesso, come fa il protagonista di Bartleby lo scrivano; appena vede un qualunque episodio della saga, cambia subito canale, eslcamando “che str…zata”. Insomma che ci ancora la commedia all’italiana non riesce bonariamente ad accettarla e rifiuta anche l’appellativo cult. Fantozzi siamo tutti noi ha detto la Pina, si proprio così. C’è un potenziale fantozziano in qualunque essere umano borghese che non aspetta altro che essere portato alla luce da un bravo analista. Quando Fantozzi si reca da un funzionario pagato della psicologia (questi personaggi sono di difficile comprensione nella loro natura, Ernst Bloch faceva sempre notare che dietro lo studio di Freud o dei suoi seguaci c’era scritto chiaramente “qui non si risolvono problemi economici”, la stessa sorte di un contadino che viene esiliato dal Mastroianni prete o ancora il grottesco di Adelaide che ripercorre meccanicamente allo psicologo della mutua la sua vita, a partire dal  vitto e dai sogni nel dramma della gelosia di Ettore Scola) viene accusato di essere inferiore, e non si soffrire di un complesso tale. Quanti di noi si sentono inferiori a qualcuno o a qualcosa, ma tutto questo meccanismo viene celato in maniera professionistica, non possiamo essere come Ugo, che schifo, indossare quegli abiti grigi da ragioniere diplomato e basta (come sottolineava un celebre critico cinematografico) andare a Venezia per il viaggio organizzato dall’inps. In questo articolo io sto dalla parte di Fantozzi, sia per una motivazione personale, sia per una ragione scientificamente universale. Se Freud ha detto che l’arte ci piace perché c’è un ritorno del rimosso, quale esempio più nobile, dopo le parole della Vukotic, di manifestazione della miseria umana. Ma misera non in senso negativo, stimo Villaggio in tutto e per tutto, sia quando parla di De André, dei topi e del fatto che parlava sporco, sia quando si cimenta in capolavori come Io speriamo che me la cavo oppure Il signor Robinson. L’obiettivo insomma è aprire le braccia materne non solo alla commedia da ridere degli anni settanta-ottanta, ma anche a quelle del ragioniere; Tuttavia questa accettazione non deve essere di compassione, quindi, correggendomi, nemmeno materna, deve essere oggettiva, meglio dire esatta. In fondo tutti quanti siamo quel fantozzi in paradiso che vicino alla sua bara di morte gioisce istantaneamente alla vista della Beatrice, la signorina Silvani.

Una riflessione di Giovanni Sacchitelli

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