Insegnando l’umiltà del giunco alla mia piccola superbia di quercia meccanica, camminandomi accanto costante, elevando con l’esempio il punto di rottura a soglie celesti. Mi dicevi delle cause di forza maggiore e di come può tendersi la pazienza o il sacrificio, genuina tenacia esperienziale. E quei colori irregolari vecchissimi dalla punta squadrata, che temperavi col coltello da cucina. Minuziosa e precisa, perché li spuntassi con gli scarabocchi sul retro sgombro di un foglio già scritto. Il telaio di legno su cui mi hai insegnato il punto pieno: una deforme viola del pensiero era il tuo orgoglio immenso. Come quando t’imitavo impastando con i pugni e frantumavo il sale grosso nel mortaio verde. Il sussulto del pendolo che mi spaventava finchè mi hai spiegato come dare la carica e non ho mai imparato a fare le orecchiette, le mangiavo crude quando le facevi tu. E poi mi nascondevo. Il libro degli animali e le pupe di pezza con cui inventavo storie, il tuo modo di tagliare la mela, la bicicletta grigia e le sere d’estate nel cortile. E se cadevo correndo venivi con l’alcol rosa che bruciava, allora non te lo dicevo ma comunque te ne accorgevi. L’altalena  al ciliegio che non c’è più, con la corda e un cuscino di casa, la bruschetta sul braciere e il piattino dell’olio poi i fazzoletti alle ginocchia  quando avevo corso troppo e mi facevano male: un dolce placebo che mi guariva. Acqua e zucchero contro ogni male, tranne il mal di testa: bisognava capire se c’era l’affascino per quello. E mi lasciavo strofinare la testa senza capire, godendo di quella cura. E il nonno che portava gli animali della campagna che mi lasciavi tenere per un po’: i guanti di gomma per i ricci, la stecca per il passerotto ferito, una civetta caduta dal nido che non sapeva volare, quel falco sparato per sbaglio da un cattivo cacciatore e la capinera, il cardellino colorato, tutte le chiocciole nei bicchieri. Ne riempivamo tante buste dopo  i temporali estivi: ti ricordi quando c’era il passaggio a livello? E non volevo venire più a lumache perché mi spaventò la vista di una pecora morta. E i sacchi di cicorie selvatiche e bietole, la spada spinosa dei cardi, le insidie dell’ortica, tutte le primavere sui crinali sottovento per gli asparagi. Ottobre le olive e mi nascondevo sugli alberi, il giorno della vipera, poi quello della mantide o di quando sono rimasta bloccata in un campo crepato dal frangizolla. Ti ricordi la tua vecchia casa risparmiata dalla frana del ’60? E il raglio dell’asino, la fontana di tua sorella col pesce rosso, i pulcini della fiera e i figli dell’avena fatua. Si faceva la conserva d’estate e il salame d’inverno. Una trottola, le palline, la tosatrice, il ferro da stiro a carbone, quel cavallino nero d’ottone, il presepe pieno di cigni e le domeniche randagie. E quando avevo paura dei fuochi d’artificio e mi hai messo le mani sulle orecchie: “guarda le luci”.

A volte non mi riconoscevi negli ultimi mesi, ti raccontavo tutto quello che non ricordavi e tu sorridevi, afferrando qualcosa che ti era sfuggito come vivendolo per la prima volta. Quell’oblio del tempo, dopo la caduta, che snatura le forme e fa tornare indietro. Il lungo termine l’orizzonte del presente, costruito con i relitti di un piccolo mondo antico.  E abbiamo avuto mille nomi, intorno a te, amandoti come tu ci hai amati. O provandoci, perchè il tuo modo è sempre stato il più alto. Scappavo spesso di casa, correndo tra i campi degli aironi, per accovacciarmi sotto la tua ala. Accanto a te nessun giudizio e il perdono perpetuo. In ogni angolo del mondo hanno stretto gli occhi, puntando il dito verso qualche tara, specie nel mio viaggio. Ti ricordi quando non sono venuta a trovarti per tanto tempo? Mi chiamavi ogni sera chiedendomi quando ci saremmo viste. E se avevo mangiato. E io dicevo “presto” e “si”, ma non era vero niente. E le fitte di un dolore atroce mi divoravano: solo tu m’avresti abbracciata in ogni caso, chiunque fossi. Ma non sapevo, non sapevo come raggiungerti.  Mille volte ho rivissuto la bellezza che mi hai dato, in quell’altrove. Soffocando tutto nel cuscino: mi hai insegnato ad essere forte,  un giunco che si piega senza spezzarsi. Nella metamorfosi ho perso tanti rami: quando sono tornata, esausta, hai letto tutto questo nel mio silenzio, senza dire niente. Misurandomi i polsi e le occhiaie, occupandoti ancora di me, anche se non ero più una bambina. E siamo tornate per le campagne, ma tu invecchiavi. E la clinica mi ha pugnalato il cuore, portarti a vedere il sole quel giorno, con la sedia a rotelle. Ti ho persa di vista, nell’egoismo del mio male, quando tu, non l’hai fatto mai. Vorrei aver preso da te qualcosa in più dei capelli. E vorrei uccidere Epicuro e d’Holbach e Dawkins, per abbracciare Agostino e saperti nella Città di Dio. Ma non so cosa c’è dopo o se tutto finisce con l’ultimo respiro. Come mi atterriscono tutte le formalità liturgiche e sociali, il fatto di non esserci stata al tuo ultimo compleanno e  non averti potuto salutare e dirti grazie.  Grazie nonna… grazie di avermi amata così tanto.

Delia Cardinale

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