Il 7 novembre 1468, su iniziativa di Lorenzo de Medici, nove amici filosofi si riuniscono nella villa di Careggi, vicino a Firenze, per riprendere l’usanza dei primi discepoli, che ogni anno celebravano il doppio anniversario della nascita e della morte di Platone. Marsilio Ficino, che è già l’anima eletta di questo piccolo cenacolo, è del gruppo, e questo dialogo riporta la discussione che ne seguì: dopo la cena, viene dato inizio alla lettura del Convivio di Platone, nel quale, com’è noto, sette ospiti, tra i quali Socrate, pronunciano un elogio dell’amore; poi, sul modello del dialogo originario, nuovi ospiti sono invitati a commentare , l’uno dopo l’altro, ciascuno dei sette discorsi. La messa in scena non deve trarci in inganno: è proprio Ficino, da un capo all’altro, che offre, tramite personaggi interposti, la sua esegesi dell’opera del maestro; esegesi o piuttosto interpretazione originale di una coerenza impressionante, che afferma una teologia o cosmologia, un’antropologia e una psicagogia, le cui tesi, riferite ai misteri ermetici ed orfici sono segnati dalla ricca tradizione del neoplatonismo di Plotino, Giamblico, Porfirio, Proclo e destinate, nella silloge di Dioniso Aeropagita, alla riconciliazione di Platone con il cristianesimo. Quest’opera di Ficino ha segnato profondamente e durevolmente la riflessione sull’amore all’alba della modernità, producendo una lunga serie di dialoghi e trattati, tra i quali brillano quelli di Pico della Mirandola, di Bembo o di Giordano Bruno, ed impregnando con i suoi concetti la poesia amorosa dei due secoli successivi.

Che cercano gli amanti

Ma che cercano costoro quando scambievolmente s’amano? Cercano la pulchritudine: perché l’amore è desiderio di fruire pulcritudine, cioè bellezza. La bellezza è uno certo splendore che l’animo humano ad sé rapisce. La bellezza del corpo non è altro che splendore nell’ornamento di colori e linee, la bellezza dell’animo è fulgore nella consonantia di scientie e costumi. Quella luce del corpo non è conosciuta dagli orecchi, naso, gusto o tacto, ma dall’occhio. Se l’occhio solo la conosce, solo la fruisce, solo adunque l’occhio fruisce la corporale bellezza, e essendo l’amore desiderio di fruire bellezza e questa conoscendosi dagli occhi soli, l’amatore del corpo è solo del vedere contento, sì che la libidine del toccare non è parte d’amore né affecto d’amante, ma spetie di lascivia e perturbatione d’uomo servile. Ancora quella luce dell’animo solo con la mente comprendiamo, onde chi ama la bellezza dell’animo solo si contenta di consideratione mentale. Finalmente la bellezza tra gli amanti per bellezza si cambia: el più antico con gli occhi fruisce la bellezza del più giovane, e il più giovane fruisce con la mente la bellezza del più antico; e colui che solo di corpo è bello, per questa consuetudine diventa bello dello animo, e colui che di animo solo è bello, riempie gli occhi di corporale bellezza. Questo è cambio maraviglioso all’uno e all’altro, onesto, utile e giocondo. L’onestà in amendue è pari, perché equalmente è onesto lo ‘mparare e lo ‘nsegnare; nel più antico è giocondità maggiore, el quale ha dilectatione d’aspecto e d’intellecto; nel giovane è maggiore utilità, imperò che, quanto è più prestante l’anima che il corpo, tanto è più pretioso lo acquisto della bellezza intellectuale che corporale. Infino ad qui abbiamo disposto l’oratione di Pausania; per lo advenire l’oratione d’Erissimaco dichiareremo.

Che la bellezza è cosa spirituale

Essendo così, è necessario che la bellezza sia una natura comune alla virtù, figure e voci; perché noi non chiameremmo qualunque di questi tre bello, se non fussi in tutti e tre comune diffinitione della bellezza. E per questo si vede che la natura della bellezza non può essere corpo, perché s’ella fussi corpo non converrebbe alle virtù dell’animo, che sono incorporali. Ed è tanto di lunga dall’essere corpo, che non solamente quella che è nelle virtù dell’animo, ma etiandio quella che è ne’ corpi e nelle voci non può essere corporea. Imperò che, benché noi chiamiamo alcuni corpi belli, non sono però belli per la loro materia. Perché uno medesimo corpo di huomo oggi è bello, e domani per qualche caso è brutto, come se altro fussi l’essere corpo e altro l’essere bello. E non sono ancora e corpi belli per la loro quantità, perché alcuni corpi grandi e alcuni brievi appariscono formosi, e spesse volte e grandi brutti e e piccoli formosi, e pe ‘l contrario e piccoli brutti e’ grandi gratissimi. Ancora spesse volte adviene ch’egli è simile bellezza in alcuni corpi grandi e in alcuni piccoli. Se adunque, stante spesso la quantità medesima, la bellezza per alcuno caso si muta, e mutata la quantità alle volte sta la bellezza, e simile gratia spesso è ne’ grandi e ne’ piccoli, certamente queste due cose, bellezza e quantità, in tutto debbono essere diverse. Oltr’a questo, se ancora la formosità di qualunque corpo fussi nella grossezza del corpo quasi corporale, nientedimeno non piacerebbe a chi riguarda in quanto ella fussi corporale, perché all’animo piace la spetie d’alcuna persona non in quanto ella giace nell’exteriore materia, ma in quanto la imagine di quella pe ‘l senso del vedere dall’animo si piglia. Quella imagine nel vedere e nell’animo non può essere corporale, non essendo questi corporei. In che modo la piccola popilla dell’occhio tanto spatio del cielo piglierebbe, se lo pigliassi in modo corporale? In nessuno, ma lo spirito in uno punto tutta l’amplitudine del corpo in modo spiritale e in imagine incorporale riceve. Allo animo piace quella spetie sola che da lui è presa; e questa, benché sia similitudine di un corpo extrinseco, nientedimeno nell’animo è incorporale. Adunque la spetie incorporale è quella che piace, e quello che piace è grato, e quello che è grato è bello. Di qui si conchiude che l’amore a cosa incorporale si riferisce, e essa bellezza è più tosto una certa spirituale similitudine della cosa, che spetie corporale. Sono alcuni che hanno oppenione la pulchritudine essere una certa positione di tutti e membri, o veramente commensuratione e proportione con qualche suavità di colori; l’oppenione de’ quali noi non ammettiamo. Imperò che, essendo questa dispositione delle parti solo nelle cose composte, nessune cose semplici spetiose sarebbono. Ma noi veggiamo pure e puri colori, e’ lumi, e una voce, e uno fulgore d’oro, e’ l candore dello ariento, e la scientia, e l’anima, e la mente, e Iddio, le quali cose sono semplici, essere belle; e queste cose ci dilectano molto, come cose molto spetiose. Aggiugnesi che quella proportione inchiude tutti e membri del corpo composto insieme, in modo che ella non è in alcuno de’ membri di per sé, ma in tutti insieme. Adunque qualunque de’ membri in sé non sarà bello. Ma la proportione di tutto el composto nasce pure dalle parti, onde ci risulta una assurdità, e questa è che le cose che non sono per loro natura spetiose, partorirebbono la polchritudine. Adviene etiandio spesse volte che, stando la medesima proportione e misura de’ membri, el corpo non piace quanto prima; certamente oggi nel corpo vostro è la medesima figura che nell’anno passato, e non la medesima gratia. Nessuna cosa più tardi invecchia che la figura, nessuna cosa più tosto invecchia che la gratia; e per questo è manifesto non essere tutto uno figura e polchritudine. E ancora spesso veggiamo essere in alcuno più recta dispositione di parti e misura che in uno altro, l’altro nientedimeno, non sappiamo per che cagione, si giudica più formoso e più ardentemente s’ama. E questo ci ammonisce che dobbiamo stimare la formosità essere qualche altra cosa, oltr’alla dispositione de’ membri. La medesima ragione ci ammaestra che noi non sospettiamo la polchritudine essere suavità di colori, perché spesse volte el colore in uno vecchio è più chiaro, e in uno giovane è maggiore gratia. E negli equali d’età, alcuna volta acade che colui che supera l’altro di colore, è superato dall’altro di gratia e di bellezza. Non ardisca però alcuno affermare la spetie essere una mixtione di figura e di colori, perché così le scientie e le voci che mancano di colore e di figura, e ancora e colori e’ lumi che non hanno determinata figura, non sarebbono degni d’amore. Oltr’a questo, la cupidità di ciascheduno, da poi che quello ch’e’ voleva si possiede, sanza dubio s’adempie, come la fame e la sete per cibo e poto si quietano; ma l’amore per nessuno aspetto o tacto di corpo si satia. Adunque e’ non cerca natura alcuna di corpo, e’ cerca pure la bellezza. Onde e’ si conchiude ch’ella non può essere cosa corporale. Per tutte queste cose si vede che quelli che accesi d’amore hanno sete della polchritudine, se vogliono per beveraggio di questo licore spegnere l’ardentissima sete, bisogna che cerchino el dolcissimo omore della bellezza, per spegnere la sete loro altrove che nel fiume della materia e ne’ rivoli della quantità, figura e colori. O miseri amanti, in che luogo vi volgerete voi? Chi fu quello che accese l’ardentissime fiamme de’ vostri cuori? Chi spegnerà el grande incendio? Qui è la grande opera e qui è la fatica. Io ve ‘l dirò, ma attendete.

Della utilità d’amore

Abbiamo insino a hora della sua origine e nobiltà parlato; della sua utilità stimo già sia da disputare. Certamente superfluo sarebbe narrare tutti e beneficii che l’amore arreca alla humana generatione, maxime potendo in somma tutti ridurgli. Perché l’uficio della vita humana consiste in questo: che ci scostiamo dal male e accostiànci al bene. El male dell’uomo è quello che è inonesto, e quello che è il suo bene è l’onesto. Sanza dubio tutte le leggi e discipline non d’altro si sforzano che dare agli huomini tali instituti di vita che dalle cose brutte si guardino, e le honeste mandino ad executione. La qual cosa finalmente appena con grande spatio di tempo, legge e scientie quasi innumerabili possono conseguire, e esso semplice amore in brieve mette ad effecto. Perché la vergogna delle cose turpe, cioè brutte, rimuove, e il desiderio dell’essere excellente alle honeste gli huomini tira. Queste due cose non per alcuno altro modo che per amore possono gli huomini con più facilità o prestezza conseguire. Quando noi diciamo amore, intendete desiderio di bellezza, perché così apresso di tutti e philosaphi è la diffinitione d’amore; e la bellezza è una certa gratia la qual maximamente el più delle volte nasce dalla conrispondentia di più cose; la qual conrispondentia è di tre ragioni. Il perché la gratia che è negli animi è per la conrispondentia di più virtù; quella che è ne’ corpi nasce per la concordia di più colori e linee. Ancora gratia grandissima ne’ suoni per la consonantia di più voci apparisce. Adunque di tre ragioni è la bellezza: cioè degli animi, de’ corpi e delle voci. Quella dell’animo con la mente solo si conosce; quella de’ corpi con gli occhi; quella delle voci non con altro che con gli orecchi si comprende. Considerato adunque che la mente, el vedere e l’udire sono quelle cose con le quali sole noi possiamo fruire essa bellezza, e l’amore di fruire la bellezza desiderio sia, l’amore sempre della mente, occhi e orecchi è contento. Or che gli fa bisogno d’odorare, di gustare o di toccare, con ciò sia che questi sensi non altro che odori, sapori, caldo e freddo, molle e duro o simil cose comprendino? Nessuna di queste cose adunque, da poi ch’elle sono semplice forme, è la bellezza humana; maxime considerato che la pulcritudine del corpo humano richiegga concordia di varii membri, e l’amore riguardi la fruitione della bellezza come suo fine. Questa solo alla mente e al vedere e allo udire s’apartiene. Lo amore adunque in queste tre cose si termina. E lo appetito che gli altri sensi seguita non amore, ma piuttosto libidine o rabbia si chiama. Oltre ad questo, se lo amore inverso lo huomo desidera essa bellezza humana, e la bellezza del corpo humano in una certa conrispondentia consiste, e la conrispondentia è certa temperantia, seguita che non altro appetisca amore se non quelle cose le quali sono temperate, modeste e onorevoli. Sì che e piaceri del gusto e tacto che sono voluptà, cioè piaceri tanto vehementi e furiosi che la mente del proprio stato rimuovono, e l’uomo perturbano, non solo non le desidera amore anzi l’ha in abbominatione, e quelle fugge come cose che per la loro intemperanza sono contrarie alla bellezza. La rabbia venerea, cioè luxuria, tira gli huomini alla intemperanza, e per conseguente alla inconrispondentia; il perché similmente pare che alla deformità, cioè bruttezza, gli huomini tiri, e amore alla bellezza: la deformità e la pulchritudine sono contrarii. Questi movimenti adunque che alla deformità e pulchritudine ci rapiscono, medesimamente appariscono intra loro essere contrarii. Per la qual cosa l’appetito del coito e lo amore non solamente non sono e medesimi moti, ma essere contrarii si mostrano. E questo testificano gli antichi theologi e quali a Dio el nome d’Amore hanno attribuito. La qual cosa ancora e cristiani theologi sommamente confermano, e nessuno nome comune con le cose disoneste è conveniente a Dio. E però ciascuno che è d’intellecto sano si debba guardare che l’amore, certamente nome divino, alle stolte perturbationi scioccamente non transferisca. Vergognisi adunque Dicearco e qualunque altro ha ardire di riprendere la maestà di Platone, che abbi troppo allo amore attribuito. Imperò che agli affecti onesti, onorevoli e divini, non solamente troppo, ma abastanza mai attendere non possiamo. Di qui nasce che ogni amore è onesto e ogni amatore è giusto, perché ogni vero amore è bello e condecente, e propriamente le cose a sé simili ama. Ma lo sfrenato incendio dal quale agli acti lascivi siamo tirati, con ciò sia che egli tragga alla deformità, giudicasi alla bellezza essere contrario. Acciò che adunque noi ritorniamo qualche volta alla utilità d’amore, el timore della infamia che dalle cose inoneste ci discosta, e el desiderio della gloria che alle honorevoli imprese ci fa caldi, agevolmente e presto da amore procedono. E prima perché amore appetisce le cose belle, sempre le laudabili e magnifiche desidera; e chi ha in odio le deforme, necessario è che le disoneste e spurche sempre fugga. Ancora se due insieme s’amano, l’uno all’altro con diligentia attendono, e doversi piacere scambievolmente desiderano: in quanto l’uno dall’altro è atteso, come quegli che mai non mancano di testimonianza, sempre si guardano dalle disoneste cose; in quanto ciascuno di piacere all’altro s’ingegna, sempre con ogni sollecitudine e diligentia alle magnifiche si mettono, acciò che e’ non sieno a disprezzo alla persona amata, ma d’essere degni di reciproco amore si stimino. Ma questa ragione copiosissimamente la dimostra Phedro, e pone tre exempli d’amore: uno di femmina di maschio innamorata, dove parla d’Alceste moglie di Admeto, la qual fu contenta morire pe’ l suo marito; l’altro di maschio innamorato di femmina, come fu Orfeo di Euridice; terzo di maschio a maschio come fu Patroclo d’Achille, dove dimostra nessuna cosa quanto amore rendere gli huomini forti. Ma l’allegoria d’Alceste o d’Orfeo al presente non ricercheremo; imperò che queste cose, narrandole come storie, molto più mostrano la forza e lo ‘mperio d’amore che volendo a quelle sensi allegorici dare. Adunque confessiamo al tutto che Amore sia iddio grande e mirabile; ancora nobile e utilissimo, e in tal modo allo amore opera diamo che del suo fine, che è essa bellezza, rimaniamo contenti. Questa bellezza con quella parte solo con la quale è conosciuta si fruisce, con la mente e col vedere e con l’udire la conosciamo. Adunque con questi tre la possiamo fruire; con gli altri sensi non la bellezza, la quale desidera amore, ma più tosto qualche altra cosa che fa bisogno al corpo possediamo. Con questi tre adunque la bellezza cercheremo, e per quella che si mostra ne’ corpi o nelle voci, come per certi vestigi, cioè mezzo conveniente, quella dell’animo investighereno. Lodereno la corporale e quella approvereno, e sempre ci sforzereno d’observare che tanto sia l’amore quanto sia essa bellezza; e dove non l’animo ma solo el corpo fussi bello, quello come ombra e caduca imagine della bellezza appena e leggermente amiamo; dove solamente fussi l’animo bello, questo perpetuo ornamento dell’animo ardentemente amiamo; e dove l’una e l’altra bellezza concorre, vehementissimamente piglieremo admiratione. E così procedendo dimostreremo che noi siamo in verità famiglia platonica, la qual certamente non altro pensa che cose liete, celeste e divine. E questo basti quanto alla oratione di Phedro. Adunque vegnamo a Pausania.

Edizione di riferimento:

Marsilio Ficino, El libro dell’amore, a cura di Sandra Niccoli, ed. Olschki, Firenze 1987

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*
*