21 aprile

Trascorrono giorni e ancora nulla è cambiato per me. Le giovanette m’attirano più che mai, eppure non ho alcuna voglia di godere. Dovunque, cerco lei. Ciò mi rende spesso irragionevole, annebbia il mio guardo, annulla il mio godimento. Presto verrà la bella stagione, quando nella vita all’aria aperta, per le strade e i viali, si van facendo quei piccoli necessari acquisti che poi durante l’inverno, in società, a caro prezzo saranno pagati; che una fanciulla tutto può dimenticare, tranne una relazione intrapresa. La vita di società, di solito, porta in contatto con il bel sesso, ma non offre spunti per iniziare una relazione. In società ogni giovanetta è provvista di sue armi, e nessuna scossa voluttuosa riceve dalla situazione, che è di per sé povera di eventi. Per istrada invece è come in alto mare, e perciò tutto ha una maggiore efficacia e tutto pare enigmatico. Pagherei cento talleri per un sorriso d’una giovanetta ricevuto per la strada, ma nemmeno dieci per una stretta di mano in un salotto. È senz’altro diverso. Quando la relazione è avviata, allora si va a cercare nei salotti quel che spetta. Una misteriosa comunicazione corre tra noi e la ragazza, che seduce ed è il più efficace incitamento che io conosca. Ella non osa parlarne, eppure vi pensa; non sa se abbiamo dimenticato oppure no. Ora la si inganna in un modo, ora in un altro. Quest’anno non mi provvederò di molte relazioni, son tutto preso da quella fanciulla. In un certo senso, il mio bottino resta povero, ma ho certamente la prospettiva di un profitto maggiore.

12 maggio

Sì, bimba mia: perché non vi fermate in tutta tranquillità sotto il portone? Non c’è proprio nulla da ridire se una giovanetta si ripara in un portone quando il tempo è piovoso. Anch’io lo faccio quando non ho l’ombrello e, talvolta, come ora ad esempio, anche quando l’ho. Potrei, inoltre, citare diverse signore stimatissime che non hanno esitato a farlo. Si rimane là tranquilli con le spalle voltate alla strada, in modo che i passanti neppure sappiano se si sta là fermi o si è in procinto di salire su a casa. Al contrario, è molto imprudente nascondersi dietro il portone quando questo è aperto per metà, imprudente per ciò che ne consegue, poi che più si sta nascosti e più sarà spiacevole essere scoperti. Ma una volta nascosti, dunque, si rimanga fermi e tranquilli, raccomandandosi al buon genio protettore e a tutti gli angeli custodi. In particolar modo ci si astenga dal guardare fuori per vedere… se la pioggia è cessata. Volendo accertarsene, si faccia un deciso passo in avanti e si scruti seriamente il cielo. Se invece, con fare un po’ curioso, imbarazzato e ansioso e insicuro, si sporge il capo in fuori per ritirarlo poi in tutta fretta… questo lo si chiama far capolino, e perfino un bambino lo capirebbe. E io, che ci sto sempre, al giuoco, mi ritrarrei senza dar risposta se mi si domandasse… Non crediate che io nutra qualche pensiero Irriguardoso sul vostro conto, certo sporgendo il capo in fuori non avevate nessunissimo scopo, fu l’atto più innocente del mondo. In cambio, non dovete pensar male di me. Il mio buon nome e la mia reputazione non lo tollererebbero. Del resto, foste voi a incominciare. Ma vi consigliere! di non parlare mai a nessuno di questa avventura, il torto è dalla vostra parte. Che cosa ho inteso fare se non ciò che un qualsiasi cavaliere avrebbe fatto: offrirvi cioè il mio ombrello?… … … Dove s’è ritirata? Benissimo, s’è nascosta dietro la portineria. È una simpaticissima ragazzina, gaia e allegra: « Forse potreste darmi qualche informazione sul conto di quella giovane signora che poco fa sporgeva il capo da questa porta, evidentemente imbarazzata dalla mancanza di un ombrello. È lei che cerchiamo, il mio ombrello e io…»; ridete: permettete allora che io mandi domani il mio servo a ritirarlo, o comandate che io vada a prendervi una carrozza? Non dovete ringraziarmi, è solo una debita cortesia… £ una delle ragazzine più vispe che” io abbia mai incontrato da tempo, il suo sguardo è cosi infantile eppure cosi ardito, il suo contegno cosi piacevole, cosi riguardoso, eppure è tanto avida di sapere. Va’ pure in pace, bimba mia, se non fosse per un mantello verde avrei cercato certamente di fare una più intima, conoscenza. Ora ella discende per la larga Kjfibmagergade. Oh! com’è innocente e fiduciosa, senza traccia alcuna di eccitazione. Con qual passo leggero avanza, con qual ritmo dondola la nuca ahimè! quel mantello verde esige abnegazione. Grazie, buon caso, abbi i miei ringraziamenti! Slanciata e altera ella era, misteriosa e grave come un abete, un virgulto, un pensiero, che dal grembo della terra germogli verso il cielo, incomprensibile, incomprensibile perfino a se stesso, un tutto che non ha parti. Il faggio dispone a corona le sue foglie e queste raccontano ciò che è avvenuto sotto di esse; l’abete non ha corona, non ha racconti, è a se stesso enigmatico: così era lei. Nascosta in se stessa, ella si elevava da se stessa; una riposante altierezza era In lei, come il volo ardito dell’abete, che pure rimane inchiodato alla terra. Una mestizia era soffusa in lei come il gemito della colomba silvestre, una profonda nostalgia che nulla appagava. Ella era un enigma che enigmaticamente possedeva la propria soluzione; un segreto: e che cosa sono tutti i segreti diplomatici al suo confronto? un enigma: e che cosa mai al mondo è tanto bello quanto la parola che lo scioglie? In che cosa dunque la lingua è tanto significativa e tanto ricca? sciogliere: quale senso ambiguo non v’è contenuto, con quanta bellezza e quanta forza non supera tutte le combinazioni da cui quella parola proviene! Se il regno dello spirito è un enigma, finché il legame della lingua non sarà disciolto, e quindi l’enigma stesso, anche una giovinetta sarà un enigma… … … Grazie, buon caso, abbi i miei ringraziamenti! Se mi fosse stato concesso di vederla durante l’inverno, ella sarebbe stata avvolta in quel verde mantello, forse offesa dal freddo, e la crudezza della natura avrebbe avvilita la sua bellezza. Ora, invece, quale fortuna! M’è stato dato di vederla la prima volta nella stagione più bella dell’anno, in primavera, alla luce del vespero. Anche l’inverno ha i suoi vantaggi. Una sala da ballo fastosamente illuminata certamente può essere la cornice appropriata a una giovanetta in abito da ballo, ma o ella raramente vi fa una vantaggiosa figura, appunto perché tutto è un invito in questo senso un invito che, se ella vi s’abbandona o vi s’oppone, agisce in maniera negativa oppure tutto ricorda vanità e transitorietà, risvegliando un’impazienza che rende il godimento meno piacevole. Certe volte lo non vorrei affatto rinunciare a una sala da ballo, non vorrei rinunciare al suo lusso dispendioso, all’impagabile sovrabbondanza di giovinezza e di bellezza che vi si trova, al molteplice gioco degli elementi. E nondimeno non ne traggo alcun profitto, giacché rasento solo delle possibilità. Non è una bellezza unica quella che ti avvince, ma un complesso di bellezze; una visione di sogno ti sfiora, in cui tutti quegli esseri femminili si confondono tra loro e tutti quei movimenti cercano qualcosa, cercano requie in un’unica immagine, che pur non appare. Fu in quella stradetta che va dalla porta Nord a quella di Levante. Erano all’incirca le sei e mezzo. Il sole aveva perduto il suo calore e appena un ricordo ne era conservato in quel mite splendore che si stendeva su tutto il paesaggio. La natura respirava più libera. Il lago era calmo e nitido come uno specchio. I graziosi edifici sui moli si rispecchiavano nelle acque, che per un lungo tratto erano cupe come metallo. Le stradette e gli edifici sull’altra riva erano rischiarati da deboli raggi di sole. Il cielo era limpido e puro, una sola nube leggera di tanto in tanto vi scivolava sopra furtiva, dolce a vedere quando l’occhio si volgeva ai lago, sulla cui limpida superficie quella dispariva. Non una foglia si agitava. Era lei. L’occhio non mi ha ingannato, non più di quel mantello verde. Sebbene io fossi già preparato da lungo tempo a questo incontro, pure mi fu impossibile dominare una certa agitazione, un palpito di gioia e di tristezza, come quello che vibrava nel canto dell’allodola che, gioioso e triste, risuonava nel campo vicino. Era sola; ho di nuovo dimenticato come fosse vestita, sebbene abbia ancora qui dinanzi agli occhi l’immagine di lei. Era sola, tutta assorta in apparenza non con se stessa ma con i suoi pensieri. Non pensava, ma il segreto lavorio del pensieri aveva tessuto un’immagine di desiderio dinanzi alla sua anima, che il presentimento possedeva, indecifrabile come i sospiri d’una fanciulla. Ella era nell’età sua più bella. Una fanciulla, per certi rispetti, non si sviluppa come un fanciullo, non cresce, nasce già cresciuta. Un fanciullo comincia subito a svilupparsi, e ha bisogno per questo di lungo tempo; una fanciulla ha bisogno di lungo tempo per nascere, ma nasce già sviluppata. In questo consiste la sua infinita ricchezza, nell’attimo stesso in cui nasce • e questo momento della nascita giunge tardi ella è già cresciuta. Quindi ella nasce due volte. La seconda volta quando va a nozze; o meglio, in quel momento cessa di nascere: ella è nata veramente per la prima volta. Non solo Minerva balza fuori già perfetta dalla fronte di Giove, non solo Venere emerge in tutta la sua grazia dalle acque del mare, altrettanto è concesso a ogni fanciulla la cui femminilità non sia stata corrotta da ciò che viene chiamato sviluppo. Ella non si desta poco per volta, ma in una sola volta; e quindi tanto più a lungo sogna, purché gli uomini non siano tanto stolidi da destarla troppo presto. Questo sogno è una ricchezza infinita… Ella non era assorta con se stessa ma in se stessa, e questo rapimento era una pace infinita e una quiete in se stessa. Una fanciulla è tanto ricca che chi sa impadronirsi di questa ricchezza diviene egli stesso ricco. Ella è ricca, sebbene ignori di possedere qualcosa. Ella è ricca, è un tesoro. Una pace tranquilla era soffusa in lei e una lieve mestizia. Era leggera, tanto che lo sguardo poteva sollevarla. Leggera come Psiche che veniva portata dai Geni, o ancor più leggera, giacché ella portava se stessa. Disputino pure i dotti della Chiesa sull’Ascensione al cielo della Madonna, a me non pare incomprensibile, visto che Ella non apparteneva più al mondo; ma la leggerezza di una giovanetta, questa sì che è incomprensibile e sfida ogni legge di gravitazione… Ella nulla osservava e si credeva pertanto inosservata. Io mi tenevo a discreta distanza e contemplavo avidamente la sua figura. Avanzava lentamente, nessuna fretta turbava la sua pace né la quiete del paesaggio. Presso la sponda del lago stava seduto un ragazzo che pescava, ella si fermò ad ammirare io specchio d’acqua e il labile riflusso. Finora non aveva camminato in fretta, eppure adesso cercò un po’ di refrigerio: si tolse una piccola sciarpa che teneva avvolta intorno al collo sotto lo scialle. Una lieve brezza dal lago scoperse impercettibilmente un seno bianco come neve e pur caldo e pieno. Il ragazzo non sembrò gradire la presenza di uno spettatore, si voltò indietro e si mise a scrutarla con sguardo abbastanza flemmatico. Ma ciò fece così goffamente che io non so biasimarla se le venne fatto di ridere di lui. Come era argentina la sua risata! fosse stata sola col ragazzo non credo che avrebbe avuto paura d’accapigliarsi con lui. I suoi occhi erano grandi e raggianti, a osservarli avevano un cupo bagliore che lasciava presentire la loro profondità infinita, senza che pertanto fosse possibile penetrarla. Erano puri e innocenti, dolci e tranquilli, pieni di furbizia quando sorrideva. Il naso era dolcemente curvo, osservandolo di profilo esso si ritraeva a linea con la fronte, divenendo in tal modo un po’ più corto e più ardito. Andò oltre e io la seguii. Fortunatamente c’era molta gente che passeggiava per la stradetta, così, mentre io scambiavo qualche parola di tanto in tanto con qualcuno, le lasciavo guadagnare un poco di vantaggio per poi raggiungerla subito dopo, evitandomi così la necessità di dover procedere alla stessa distanza da lei, che andava a passo lento. Ella si avviò verso la Porta di Levante. Cercavo di vederla più da vicino senza essere veduto. C’era una casa, sull’angolo, da dove ciò mi sarebbe dovuto riuscire possibile. Vi conoscevo una famiglia e, dunque, bastava che mi recassi da loro in visita. Le passai accanto con passo affrettato, come se neppure lontanamente badassi a lei. Ebbi così un buon tratto di vantaggio. Porsi a tutti della famiglia, a destra e a manca, i miei saluti e presi posizione presso la finestra che dava sulla stradetta. Finalmente giunse. La mirai e rimirai, intanto che continuavo a conversare con la brigata che stava prendendo il tè nella sala di soggiorno. Il suo modo d’incedere subito mi convinse che ella non aveva frequentata alcuna scuola di danze alla moda, e tuttavia c’era una certa altierezza nel suo passo, una naturale nobiltà, nonostante un difetto di controllo su se stessa. Potei rimirarla una volta più di quanto effettivamente avessi sperato. Dalla finestra potevo vedere soltanto un tratto della strada, oltre il quale il mio sguardo si spingeva fino a un ponte che attraversava il lago: con mia grande meraviglia la scorgo di nuovo laggiù. Mi venne fatto di pensare: forse ella abita in campagna, forse la sua famiglia sta  in villeggiatura. Ero già sul punto di pentirmi della mia visita, preso dal timore che ella non dovesse tornare sui suoi passi e lo perderla di vista, si, il fatto che ella rimanesse visibile fino all’estremità del ponte era un segno che per me ella dovesse tornare a sparire quando riapparve vicinissima. Era passata davanti la casa. D’un balzo afferro cappello e bastone nell’intento di tornare a passarle vicino, se possibile, ancora molte volte e di correrle dietro fino a scoprire la sua abitazione, allorché nella fretta urto il braccio di una signora che proprio in quel momento era sul punto di porgermi il tè. S’ode un grido spaventevole. Cappello e bastone in mano, mi fermo; preoccupato solo di fuggir via e, se possibile, di profittare dell’incidente per giustificare la mia ritirata, prorompo in tono patetico: < Come Caino, voglio fuggir via dal luogo dove questo tè fu sparso! ». Ma, quasi che ogni cosa avesse congiurato contro di me, ecco che il padrone di casa ha la disperata idea di trar partito dalla mia affermazione per dichiarare, in tutta solennità, che non mi avrebbe concesso il permesso di congedarmi fino a quando non avessi sorbito una tazza di tè e non ne avessi offerto alle signore, riparando in tal modo al mio fallo. Dovetti così convincermi che il mio ospite, in quel caso, avrebbe reputato cortesia il convincermi con la violenza, per cui non c’era altra scelta che rimanere. Ella era sparita.

Estratti da:

Soeren Kierkegaard – Diario del seduttore

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