Cara signora Milena

oggi voglio scrivere di altre cose, ma le cose non vogliono. Non che io le prenda proprio sul serio; se lo facessi, scriverei diversamente, ma ogni tanto ci dovrebbe essere pronta per Lei, nella penombra del giardino, una sedia a sdraio con una diecina di bicchieri di latte a portata delle Sue mani. Potrebbe essere anche a Vienna, tanto più che siamo in estate, ma senza fame e inquietudine. Non è possibile? E non c’è nessuno che lo renda possibile? E che dice il medico? Quando trassi il fascicolo dalla grande busta, restai quasi deluso. Desideravo udire notizie Sue e non la troppo nota voce dal vecchio sepolcro. Perché si è inserita fra di noi? Ma poi mi ricordai che fra di noi aveva fatto anche da mediatrice. Del resto non riesco a capire come mai Lei si sobbarcata a codesta grande fatica, e molto mi commuove il pensiero della fedeltà con la quale l’ha fatto, una frasetta dopo l’altra, una fedeltà che non avrei sospettato possibile nella lingua ceca, né giustificata dalla bella naturalezza con la quale Lei la usa. Sono così vicini il tedesco e il ceco? Comunque sia, in ogni caso il racconto è pessimo; con la massima facilità glielo potrei dimostrare, cara Signora Milena, quasi riga per riga, e soltanto il disgusto vi sarebbe un po’ più forte della dimostrazione. Il fatto che il racconto le piaccia gli conferisce beninteso un valore, ma per me turba un po’ la visione del mondo. Non parliamone più. Riceverà “Il medico di campagna” da Wolff, al quale ho scritto. Certo che capisco il ceco. Già un paio di volte volevo chiederLe perché non scrive in ceco. Non che Lei non sia padrona del tedesco. Per lo più ne è padrona in modo stupefacente e, se qualche volta non lo è, esso si piega davanti a Lei spontaneamente e diventa più che mai bello; cosa che un tedesco non osa nemmeno sperare dalla sua lingua, perché non osa scrivere in modo così personale. Ma vorrei leggere uno scritto Suo in ceco, perché a questo Lei appartiene, perché qui soltanto è tutta Milena (la traduzione lo conferma), mentre là è sempre e soltanto quella di Vienna o che per Vienna si prepara. Dunque in ceco, per favore. E anche le appendici delle quali mi scrive. Poniamo pure che siano meschine, ma Lei ha avuto il coraggio d’ingolfarsi anche nella meschinità del racconto, fin dove? non so. Forse ne sono capace anch’io ma se non lo fossi vuol dire che m’incaglierò nel migliore dei pregiudizi. Lei mi chiede notizie del mio fidanzamento. Fui fidanzato due volte (o diciamo tre, cioè due volte con la stessa ragazza), dunque tre volte a pochi giorni di distanza dal matrimonio. La prima è cosa passata (esiste già un nuovo matrimonio e, a quanto mi dicono, c’è anche un bambino), la seconda vive ancora, ma senza alcuna speranza di nozze, dunque a rigore non vive o, meglio, vive una vita autonoma a carico altrui. In complesso ho visto qui e altrove che l’uomo soffre forse di più o, se vogliamo, ha minore resistenza, mentre invece la donna soffre sempre senza colpa, e non già per “non averci colpa”, bensì nel senso vero e proprio, che però va forse di nuovo a sfociare nel “non averci colpa”. D’altro canto è inutile riflettere su queste cose. E’ come si volesse sforzarsi a rompere una sola caldaia nell’inferno: in primo luogo non ci si riesce e in secondo luogo, se la cosa riesce, si brucia nella massa incandescente che si riversa, ma l’inferno continua in tutto il suo splendore. Bisogna prendere la cosa diversamente. Anzitutto, in ogni caso, sdraiati in un giardino e trarre dalla malattia, specialmente quando non è veramente tale, la maggior dolcezza possibile. Essa ne contiene molta.

Suo Franz K.

Un estratto dalle LETTERE A MILENA [Briefe an Milena] Lettere dello scrittore ebreo-boemo di lingua tedesca Franz Kafka (1883-1924), edite a New York-Francoforte nel 1952. Dirette a Milena Jesenská, la sua prima traduttrice in ceco, ci sono state conservate per caso. Infatti Milena, nella primavera del 1939, poco dopo l’invasione tedesca della Cecoslovacchia, consegnò all’amico Willy Haas le lettere scrittele da Kafka: cinque anni dopo moriva nel campo di sterminio di Ravensbrück. Accanto ai Diari (v.), queste singolari lettere scritte tra il 1920 e il 1923 (una datazione esatta è quasi impossibile) sono la più importante testimonianza autobiografica di Kafka (per quanto riguarda i riferimenti a personaggi del suo tempo, Willy Haas, cui fu affidata da Max Brod la pubblicazione, ha creduto opportuno omettere gran parte delle allusioni polemiche e caricaturali). Kafka si presenta in questo epistolario all’amica sposata, ma in crisi matrimoniale (poco dopo la rottura con Kafka Milena divorziò dal marito), con tutto il suo tormento, i suoi complessi e la sua patologica paura di ogni scelta, traendo da questo amore, in un primo tempo corrisposto, continui motivi di angoscia e turbamento. Da una parte lo scrittore non sa rinunciare al suo lavoro in ufficio (“proprio perché esso mi è estraneo fino all’assurdità, richiede riguardi”) mentre dall’altra non riesce più a vivere senza continui progetti per un incontro con l’amica. A Milena (“che nome grave di ricchezza”) Kafka non si sente legato solo da un sentimento: essa gli è anche il coltello con il quale si “dilania”. La corrispondenza si riduce sempre più a disperate invocazioni da parte di Kafka perché quello che vorrebbe dire non gli esce più “dalla gola angosciata”. L’ultima lettera coincide con un nuovo aggravarsi del male al quale Kafka soccomberà un anno più tardi.

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