Il rischio più frequente quando si discute intorno a temi noti  e “spesi” ogni giorno tra le mura domestiche o tra la gente in città è quello di dire cose banali e ovvie; stamattina però, nonostante sento che non starò per dire niente di brillante, ho la necessità di scrivere, come quando si ha desiderio di un’idea o di un concetto che non si trova in un dizionario e comunque seguitiamo a sfogliare le pagine fino ad evidenziare pure la copertina, anche se è lisa e consumata. Il ruolo della scrittura dovrebbe essere lo stesso che assegnò la filosofia greca nella figura di Aristotele alla tragedia (appunto nella sua Poetica) quando dice che se guardiamo uno spettacolo avviene una catarsi, ovvero una liberazione entro noi stessi dalle passioni cattive (o tristi) vedendole esposte a mo di spettacolo sulla scena di un teatro, in cui viene messa in scena una rappresentazione tragica. Diceva una cosa simile anche Pascal nei suoi Pensieri (ogni tanto tra le miliardi di citazioni Bibliche c’è anche qualcosa di meramente empirico, come le considerazioni sull’amore o sulla natura generale dell’uomo intesto come fragile e finito come una canna, però pensante. In ciò è la superiorità dell’uomo sulle bestie, il pensiero razionale) quando spiega il motivo per il quale non bisogna andare a teatro; nell’autore francese tuttavia lo spettacolo è intesto in senso deleterio, in quanto puramente divertissement, più o meno come quando noi andiamo a vedere i cinepanettoni (o non necessariamente, anche i cosiddetti film impegnati per Pascal avrebbero lo stesso effetto, soprattutto quelli in cui c’è una “morale buona”, quelli insomma che ci appiccicano un sorriso ben pensante e borghese, mi viene in mente adesso subito la vita è bella di Benigni). Per Pascal bisogna evitare il teatro perché  in esso (Pascal si riferisce soprattutto agli spettacoli in cui anche passioni, come quella amorosa, o meglio carnale, vengono risvoltate in un ambra etica e pudica) c’è una sorta di tradimento e inganno; vedendo che le passioni carnali (chiaro esempio di peccato cristiano) vengono messe in scena in modo innocente e bonario, l’uditore è indotto ad uscire entusiasta dalla rappresentazione e a riprodurre nella vita reale quelle stesse passioni cattive in maniera indiretta e altrettanto peccaminosa (Pascal poi non si capisce se è contro o a favore del sentimento amoroso e di tutto ciò che esso porta con sé. Certo lo ricordiamo tutti dagli studi del Liceo che “il cuore ha delle ragioni che la ragione ecc..” oppure la distinzione tra esprit de finesse e esprit de géométrie, che sembra chiaramente indurre a pensare che la vita umana è essenzialmente passione e non ragione argomentativa). L’uditore ne esce entusiasta, felice, cambiato radicalmente nel suo modo di vedere le cose, soprattutto perché vede che in teatro l’amore è dolce ed innocente, romantico, lento e non biologicamente carnale; tuttavia questo ha come fine ultimo la passione carnale, vietata dal catechismo cristiano-cattolico e Pascal è talmente convinto della sua fede che arriverà anche a giustificare razionalmente i miracoli e a rifiutare le prove eccessivamente calcolatrici e astratte della fede (pensiamo a S. Anselmo e alla sua prova ontologica). Il teatro e la rappresentazione amorosa in Pascal sono connesse direttamente alla morale cristiana, quante volte l’autore francese insiste sulla firgura di Gesù Cristo (scrisse anche una vita del medesimo) e sul fatto che senza Dio la vita umana è insignificante e persa. La carne è assente nella sua riflessione, soltanto valanghe dottrinali, citazioni dal testo sacro e ammonimenti. C’è un solo riferimento alla sessualità quando si dice che l’atto sessuale come lo starnuto assorbe tutte le nostre facoltà, riferimento timido e dovuto, del resto era sposato, dunque aveva conosciuto la carne, ma solo per dovere indiretto di trasmettere la sua stirpe e seguire l’insegnamento del crescete e moltiplicatevi. Ho fatto un riferimento a Pascal anche nell’articolo di ieri, non  so perché ma c’è qualcosa che mi attira in questo filosofo istintivamente, mi riporta subito nel 1600 e mi fa respirare quella sua malattia instabile che gli impedì pensate di non lavorare per quattro anni, fino alla morte, scrisse i Pensieri quando il suo male fisico glielo permetteva ancora, tra il letto e lo scrittoio, per questo è un autore doppiamente contraddittorio, per il suo legame assurdo con la vita del corpo, con la sua mortificazione e al contempo con l’affermazione dell’importanza imprescindile del coeur. Del resto si è mai visto un cristiano che non dica a se stesso, anche in maniera artificiale e algoritmica, “devi essere buono”, “fai un’azione buona”, “se ho fatto questo allora suono buono”, “che bella persona che sono”, “certe cose sono da gente senza cuore”. La bontà d’animo è cristiana, per definizione, spesso infatti mi capita di essere scambiato per un chierico, o comunque per un fervente credente, quando si legge nei miei occhi un’ingenuità ed un’onestà sconcertante (la stessa del principe Idiota di Dostoevskij), viene subito da pensare che io sia cattolico, perché buono, ma quando mai? Ecco questo è l’atteggiamento generale di Pascal ma anche di ogni cristiano, pensare che la bontà d’animo sia specificamente cattolica, non c’è bene senza Dio. Errore grave. Sono stato certo credente da bambino e in parte nella prima adolescenza, prima che quell’uno-tutto con il mondo (che poi altro non è che il residuo del rapporto bambino-madre nei primi mesi dopo la nascita, vedi a questo riguardo Melanie Klein) mi dividesse in tante parti la mia unica realtà onnicomprensiva della vita infantile. Da quel momento in poi è terminata la mia credenza, che già a partire dagli undici anni si era trasformata in una fede scissa e distaccata, recitativa, il preambolo dell’ateismo; non sono nemmeno agnostico, per me non esiste niente al di là della nostra ragione industriale e catalogatrice. Dio altro non è che una rielaborazione vigliacca dei nostri Eroi, più o meno alla maniera di Nietzsche. Pascal dunque a differenza di Aristotele dava una connotazione negativa agli spettacoli. Ho parlato all’inizio della catarsi proprio perché, e qui ritorno ancora sui miei articoli precedenti, quando dicevo che ogni discorso universale nasce da un particolare inquieto, in quanto la scrittura per me, in questi ultimi giorni ha un ruolo chiaramente di purificazione. Spesso si vedono in tv degli autori che dicono che “la scrittura aiuta a fare chiarezza nel proprio animo”, frase banale eppure vera. Immaginiamo la pagina bianca (in barba a Mallarmè che scrisse addirittura un elogio alla pagina bianca, i francesi evidentemente per la loro confusione mentale sono portati alle tabulae rasae ) come un parroco che con la sua profumata stola confessionale ascolta i nostri peccati e noi li recitiamo, uno dopo l’altro, senza peli sulla lingua, in cascata. La scrittura ha dunque, per me, un ruolo di liberazione non tanto dai peccati, quanto dal dovermi giustificare, termine inteso come dare ogni volta giustizia delle mie azioni. E’ un vizio pericoloso, come il fumo o l’alcool, eppure necessario. C’è chi non sapeva scrivere (mi viene in mente un episodio in cui Jacques Derrida andò da Foucault dicendo che non sapeva cosa dire, Foucault gli consigliò di iniziare a scrivere, qualunque punto, poi Derrida diventò un mostruoso grafomane incomprensibile) e poi ha imparato a farlo. Scrivere è confessarsi, appartenere dunque ad una nuova fede, quella dei letterati peccaminosi. Per questo motivo scrivo e per questo motivo oggi parlo dell’Amicizia. Ho studiato gli Essais di Montaigne (nello stesso periodo lessi anche Stendhal nelle sue considerazioni Sull’amore, un manuale abbastanza interessante, soprattutto quando dice che non può nascere emozione nei cuori che crepano di noia e sono inariditi dagli studi, qui si capisce che era sveglio) molto tempo fa, un estratto in cui si rivolgeva a Étienne de La Boétie dicendo in amicizia non c’è separazione tra l’anima di uno e l’anima dell’altro:

« Au demeurant, ce que nous appelons d’ordinaire amis et amitiés, ce ne sont que des relations familières nouées par quelque circonstance ou par utilité, et par lesquelles nos âmes sont liées. Dans l’amitié dont je parle, elles s’unissent et se confondent de façon si complète qu’elles effacent et font disparaître la couture qui les a jointes. Si l’on me presse de dire pourquoi je l’aimais, je sens que cela ne peut s’exprimer qu’en répondant : Parce que c’était lui, parce que c’était moi.

Au-delà de mon discours et de ce que j’en puis dire particulièrement, il y a je ne sais quelle force inexplicable et fatale, médiatrice de cette union. Nous nous cherchions avant de nous être vus, et les propos tenus sur l’un et l’autre d’entre nous faisaient sur nous plus d’effet que de tels propos ne le font raisonnablement d’ordinaire: je crois que le ciel en avait décidé ainsi. Prononcer nos noms, c’était déjà nous embrasser.

Et à notre première rencontre, qui se fit par hasard au milieu d’une foule de gens, lors d’une grande fête dans une ville, nous nous trouvâmes tellement conquis l’un par l’autre, comme si nous nous connaissions déjà, et déjà tellement liés, que plus rien dès lors ne nous fut aussi proche que ne le fut l’un pour l’autre. ». (Montaigne, Essais, livre 1, chapitre 28).

Una concezione dell’amicizia simile dunque apparentemente all’amore. L’amicizia condivide alcuni tratti anche con l’infatuazione tipica del rapporto uomo-donna quando si parla di erotismo. Ritengo questa concezione dell’amicizia molto strana e per certi versi tendente al rapporto omosessuale (la stessa cosa vale per i legami saffici). Ho voluto proporvela perché va conto il senso comune, soprattutto contro quello che pensa mediamente l’essere umano maschio comune (infatti questo discorso è più rivolto agli uomini che al gentil sesso, perché il genere femminile è più arguto e aperto sotto questo aspetto). Sono pochi gli uomini che sarebbero disposti ad un rapporto così nobile e interamente gioioso, fare parte di un unico corpo, e di un’unica anima. Sarebbe una cosa poco moderna vedere un amico e al contempo provare imbarazzo, emozione forte, entusiasmo, volontà perché no di appiccicargli un bacio. Il maschio medio nella sua classica aderenza ai modelli di virilità normale non può impazzire di gioia se riceve una chiamata o un messaggio da parte un un amico caro. Magari dentro di sé prova affetto ma non può manifestarlo, sarebbe una cosa troppo da donne. Non vorrei sbagliarmi ma lo stesso Mointaigne diceva che gli bastava leggere tutto il giorno e poi la sera comunicare le sue ardenti scoperte all’amico del cuore. Come è importante il cuore per i francesi, forse più che per noi italiani, troppo banali per concepire il romanticismo. L’amicizia come qui vorrei spiegarvi è sicuramente aliena da quelle classiche connotazioni moderne, del duemilasedici. Un sentimento che deve essere coltivato, istintivamente, ingenuamente, solo spirito. Spirito condivisione, entusiasmo, passione ma soprattutto verità. Come in ogni rapporto amoroso che si rispetti, la sincerità è fondativa; non può esistere autentico legame unico, una comunicazione tra le anime, se queste ultime non si danno per quello che sono, senza pensieri, freni o inibizioni di sorta. Caro amico ti scrivo oppure Ci vorrebbe un amico oppure Il mio rifugio, nella musica italiana ci sono tanti esempi infantili di quello che voglio dire, ma non basta. Bisogna estirpare quella nostra virilità arida e stupida e vedere l’amicizia come l’amore, certo senza arrivare al connubio totale, questo dipende dai gusti e dalle inclinazioni, non voglio ne difendere ne accusare nessuno. Per me l’amicizia è il cibo dello spirito e la comunicazione principale del cervello e dell’anima. Tutti sappiamo che Friedrich Nietzsche nel Gennaio del 1881 abbracciò un cavallo a Torino, per farvi capire chi è amico pensate al comportamento di cui andrò a prenderlo e lo portò con sé.

Una riflessione catartica di Giovanni Sacchitelli (Foggia, 1988)

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