I Danubio mostrano subito le unghie e i denti: fin dal primo brano del loro album d’esordio si capisce di che pasta sono fatti e la direzione che la loro musica prenderà. La traccia di apertura ci assale con un controtempo di chitarre e batteria e la successiva lascia spazio a un giro acido di basso distorto. I titoli (“Dailan” e “Wojtek”) appaiono ermetici e i testi mantengono la promessa.
Il rock dei Danubio è energico e dissonante, pur nascondendo una vena melodica negli interstizi delle note: mai troppo invadente ma neanche mai latitante. Il risultato è piacevole, vigoroso e mai scontato, anche nei brani in cui la sezione ritmica prende qualche piccola pausa (“Naima”, “Albicocca” o “Il 3 gennaio sulla spiaggia”).
Le lezioni del migliore rock alternative italiano appaiono ben assimilate: “Nuoto perpetuo” e “Quello che tutti aspettano da tempo” ne sono ottimi esempi, di fattura e influenze completamente diverse, ma entrambe efficaci. A tratti si sentono affiorare i Marlene kuntz, in altri momenti gli Afterhours di Hai paura del buio, ma nessuna influenza appare così evidente da risultare invadente. Forse le radici andrebbero ricercate ancora a monte, ossia nelle band d’oltreoceano che hanno ispirato, negli anni ’90, i capostipiti di certo rock nostrano, perché senza dubbio la musica dei Danubio ha origini in quel decennio d’oro, sebbene certe lievi influenze elettroniche ci riportino ai tempi attuali.
Dietro questo disco c’è un buon lavoro di scrittura, arrangiamento e produzione. Nulla sembra lasciato al caso e il risultato finale ne trae indubbio beneficio. Nonostante ciò c’è spazio anche per un pizzico di sana follia, in “Dov’è la psicopolizia quando serve?”, traccia che chiude l’album ed è già un programma a partire dal titolo.
La musica dei Danubio, insomma, non è immediata ma supera ugualmente a pieni voti l’esame già dai primi ascolti, almeno da parte dei rocker più incalliti.

Manlio Ranieri

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