Il mio era un lupo gentile. Non brigantino come quello dei fratelli Grimm e neanche subdolo come quello di Perrault. Aveva gli occhi d’ambra e il manto corvino. Niente cappuccio rosso o cesto colmo di vivande. E la nonna era al sicuro nella sua vecchia casa condominiale, lontana dal bosco. L’obiettivo della traversata, in quell’imbrunire memoriale, era meno nobile del dono parentale. E non c’erano bivi né sentieri. Dovevo fare pipì. E mi allontanai da tutte le voci perché ero molto timida. Saltellando come una ranocchia sui massi del ruscello, nel grembo già ombroso del bosco, trovai la mia alcova tra i cespugli, dopo il tributo di riccioli d’oro sui roveti. Accovacciata tra le felci come una lepre distratta. E lo vidi, tra i rami spinosi: una macchia più scura sotto la palpebra ancora schiusa del giorno che muore. Aveva il tramonto negli occhi e le narici curiose. Non avevo paura. Era di fronte a me come uno specchio, eppure vedevo la linea del suo corpo da una prospettiva sinistra, affascinante. Non ci furono parole, né mi indicò una via più sicura da seguire. Restammo lì: il lupo e la bambina. Poi ebbi l’istinto del contatto e forse fu un errore: appena allungai la manina verso di lui scappò via, una nuvola di fumo nero sciolta tra le foglie. La mano tesa e vuota verso il nulla e una profonda tristezza. Ma il dispiacere lasciò il posto ad una gioia che non so dire. E tornai correndo verso mia madre, il piccolo cuore impazzito. Avevo una storia vera, non una fiaba. E mi aveva attraversata tutta, al punto da non riuscire a raccontare.

“Mamma ho visto un lupo!” : la banalità delle parole non riusciva a ricalcare l’emozione.

Fu la prima volta che sperimentai l’incapacità del significante, la prima volta che m’innamorai.

Delia Cardinale

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