Ho 29 anni ma è come se ne avessi di meno, molti in meno. Mettiamo dieci da buttare nel dimenticatoio, lasciando bene in mostra solo larghe finestre con vista mare o poster dai colori sgargianti, appesi alle pareti della mia stanza. Ero ad un punto della mia esistenza nel quale mi sentivo in bilico, come una ballerina grassa e sgraziata che tentava maldestramente di restare sulle punte, con la mascherina piantata sul vertice dell’albero maestro di una barchetta di carta che ormai inzuppata, affondava nello stagno del tempo. Non me ne voglia la Woolf ma l’espressione “stagno del tempo” rende perfettamente quella che è stata la mia esistenza per un pò, stagnante e densa di infiniti tempi morti.

Nessun ricambio. Solite facce torve, solite bocche troppo larghe, troppo sorridenti, troppo rumorose e chiacchierone. Posti stantii e affollati, occhi piatti e miopi, ad incorniciare nasi troppo lunghi tanto da risultare ingombranti nelle esistenze degli altri. Allora, mentre la barchetta affondava e le acque piano piano si richiudevano pigre e poco soddisfatte di quel pasto inconsistente, io decidevo di saltare. Mentre la poppa si inabissava trascinandosi dietro l’albero, fu allora che mollai la presa, mi tuffai iniziando a nuotare. Un pò come hanno fatto Rose e Jack nel film “Titanic”. Del resto sono sempre stata una discreta nuotatrice perciò perché impantanarsi in qualcosa che non ho mai voluto imparare.

Il nuoto. Quattro brevetti, costati circa due anni di spole tra il mio paese e quello vicino, tutto per consumare un’oretta in una piscina piena zeppa di piscio e marmocchi malaticci, mentre mia madre con gli occhi sgranati e le dita intrecciate mi guardava dalla tribuna in preda alla disperazione. Era una prova quella, una prova di coraggio che si infliggeva circa due volte a settimana. Era talmente apprensiva che andava in giro con una confezione di talco da mezzo chilo nella borsa. “Vieni qua, non sudare!”, urlava e mi correva dietro per avvolgermi in quella polvere sottile e secca. E poi, come se fossi stata una damina alla corte di Luigi XIV, tutta incipriata fino ai capelli ballonzolavo con in mano le balze della gonna gonfia in perfetto stile 1992, verso i miei amici che oramai avevano già finito il gioco da un pezzo. E niente, il momento era passato e si tornava a casa, io con il caschetto gonfio almeno tanto quanto le guance paffute per il disappunto e lei, che bisticciava con mio padre che puntualmente le rinfacciava la sua essenza di donna esageratamente ansiosa. Phil Collins intanto cantava “Oh think twice, ‘cause it’s another day for you and me in paradise”. Con il senno di poi mi è sembrato profetico il fatto che ascoltassimo quella cassetta ripetutamente (insieme a quella di Battisti, dell’Alligalli e delle varie Hit Mania Dance). Del resto, se mia madre alle superiori avesse studiato l’inglese e non il francese, probabilmente avrebbe colto il segno che l’Altissimo stava cercando di farle arrivare tramite il mangianastri della nostra Fiat 124.

Il Paradiso, quello che intendevo io, quello delle sudate senza alcun rischio di polmonite e delle ginocchia sbucciate non arrivò mai, ma drogata da talco e cloro ho continuato a nuotare fino ad oggi. Ho raggiunto la sponda fangosa dello stagno. Mi ci sono seduta, ho guardato il ribollire delle acque che si rifondevano in un’unico specchio torbido ed ho sospirato. “Devo costruirmi una barca più solida” – mi sono detta – “nulla di eccezionale, anche perché poi lo sappiamo che brutta fine fanno. Ho guardato quel film uno svariato numero di volte. Voglio una barchetta resistente che mi permetta di navigare tranquilla”. Ma niente stagni per questa volta, solo mare aperto.

La copertina: “…But Seriously”, Phil Collins


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