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Come se non ci fossero modi più letali per farsi male…

che questa fede-labirinto, a densi rivoli su tutti i muri:

liquida e lenta paretaria sull’acciaio di un’anima anti-atomica,

offesa come la foresta amazzonica

e cercata

come il passaggio a nord ovest.

L’isola sconosciuta di Saramago,

per una ciurma esigua che conosce l’eccezione

del bastarsi.

Lei la fiaccola olimpica, io una vecchia scatola di fiammiferi.

La sua costanza le autostrade del Nord Europa,

queste mie altalene

tutti i cavalcavia del Sud.

Vorrei dirle che le credo, ma sarebbe come segarmi il torace.

Tanta putredine del mio buio

è ancora nascosta

nella tasca interna:

fosse il più grande tesoro

o la più grande atrocità.

E invece no.

Solo la cauta lacrima delle antenne paraboliche

e chilometri di nastro isolante.

Non mi sono mai spogliata e le sue forbici

dietro la schiena

un’onta dolcissima:

perfino il buonsenso contempla la resa.

Una bandiera bianca sul volto della luna.

Ma una parte di me cerca ancora la pentola d’oro

sulle caviglie dell’arcobaleno

più ambizioso.

Potrei essere migliore,

prima di cedere l’elsa

e lasciarmi attraversare.

Era questa l’idea:

Palos de la Frontera per avide caravelle

ancora da costruire.

Prima la stabilità del porto,

poi la lunga traversata.

Invece da uno scoglio qualsiasi,

tra fiordi capricciosi e inghiottitoi,

ho deciso di remarle incontro.

Nessun galeone alle mie pretese eroiche,

nessun equipaggio.

E lei sembrava la polena scolpita sulla gola di una nave onirica.

Quel coro di sirene che invita al naufragio.

Ed io a caccia di farfalle con le reti da pesca

ad ammirare quel volo

sulle onde,

sulla lucidità.

Neanche l’ingegno mi ha offerto i polsi,

quel primo giorno.

Così le ho parlato,

da una barca in panne sull’oceano.

Giocando a dadi coi marosi e la schiuma di mare.

Issando il teschio pirata

e tre girasoli,

per dirle di fiori

e morte

e bellezza oscura.

Come se avessi bisogno di un altro muro

per sbatterci contro

e m’importasse

di questo

ennesimo

salto

nel buio.

C’è comunque quel ruggito

dentro,

di terrori annegati

ormai spettri

e lì,

chinando il capo

come i condannati,

guardo la forca

e rido.

Mi crollasse pure il mondo addosso

adesso:

non mi spaventa il campo nomadi

più di un turrito castello.

Bisogna vivere le macerie

per farne palazzi:

è la ciclicità delle cose umane.

Compro il suo essere

col mio,

che niente avanzi

dall’eucarestia profana

di questo

inatteso

improvviso.

 

Delia Cardinale

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