Gli oggetti come simboli di realtà estemporanee: feticismo infantile che riempie scatole dimenticate sotto il letto. Un assolo eterno di associazioni cromatiche, nel buio viscoso dei ricordi. Lentissimo il risveglio, moviola sincopata di gesti ripetuti cum variatione. Ed è sempre diverso il sapore del caffè, stato di perenne transizione nella casa degli specchi. Si deforma il volto nello sciame dei riflessi: ironia d’identità ad intarsi, dal sasso nello stagno guizzanti pesci colorati in tutte le direzioni possibili. Vestire da diavolo l’innocenza, in uno splendore comburente che attende l’esplosione. Un contatto diverso da tutti gli altri. Inerte la miccia e lontanissima, in una calma magmatica che sbuffa necrologi. Danzando intorno alle pire funebri di ogni sensazione che eccede spirando: declino incandescente e teatrale di supernove nel vuoto. Il vuoto primordiale dei collezionisti a caccia di rarità. Lasciarsi poi accarezzare da qualche lusinga e sputare sulla tavola. Ansia d’assoluto che offende la carne. E Semiramide morde le labbra di Santa Chiara. Ho sognato la guerra in Kosovo e i tasti di un pianoforte. Pulsano all’unisono tutte le cicatrici, e sono viva come il tritono diabolico e le tube dei cherubini. Viva come le viole del pensiero e i cerbiatti, come i tordi e le gerbere. Qualcuno mi strappò dalle mani una bambola e fumai tossendo la prima sigaretta. Ed ero sul balcone di una casa bellissima, poi sottoterra e nel nastro di un’audiocassetta, supina tra le primule di una primavera qualunque, a squartare boccioli di papavero. Il nonno fabbricava fischietti dai mattoni rotti e correvo nei prati suonando richiami per le bestie. Poi mi raccontava dei tedeschi e delle camice nere. E una vecchia un giorno mi disse che ero bella regalandomi una pallina di piombo pesantissima. Chiedendomi da sempre il significato dei fili d’erba e i nomi dei venti. Quello stupore che ancora m’accende, nonostante tutto.

Una donna mi ha raccontato che quando sua madre era incinta sentiva un battito d’ali dentro e lei è nata musicista: è stato come ascoltare una poesia. E io mi sono chiesta cosa sentiva mia madre aspettandomi. Continuo ad accarezzare gli spigoli di una memoria selettiva, teorie quantistiche imprevedibili e i cani per la strada. E tutti gli oggetti di questa fabbrica accatastati lungo i crinali di un feroce sentire. Ho finito le scatole e tutto è simultaneo: le favole del passato e il disincanto dell’oggi, pupazzi e nodi in gola.

Questo caos nell’urgenza di vivere e morire, come gli acrobati del circo e i lavavetri sui grattacieli…

Delia Cardinale

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