Lo ricordo chiaramente il mio miglio verde. E non ero sola al patibolo. Altri come me chinavano il capo. Qualcuno non accettava la condanna. Abbracciai una donna dicendole che ero come lei, il primo giorno. Era di una bellezza ingiusta per quel posto: avrei voluto portarla via e dirle che ci sarebbe stato un altro mondo fuori, dove tacevano tutte le voci. Ma non era vero, così le raccontai di quando ero bambina e mi piacevano i fiori. Le sue mani fredde tra le mie, tiepide. E mi ringraziò. Qualche mese dopo fu lei ad abbracciarmi ed io ad avere le mani fredde. Nel braccio era così: c’erano le fasi lunari. Gobba a levante e qualcuno moriva. Gobba a ponente e qualcuno rinasceva. Tutti nel corridoio con le ventole ad aspettare un numero. C’era una dignità in quel dolore comune che io non so dire. Nè mi serviranno le metafore o tutte le parole che conosco. Al piano terra c’erano i pazzi, quelli che erano andati oltre e non erano più tornati. Noi eravamo in bilico, dove rimarremo sempre. Non si può guarire, solo armarsi. La guerra ce l’avevamo dentro e dovevamo seppellire una parte immortale di noi stessi. O meglio imbrigliarla, gestirla, piegarla in direzione della vita. Volontà e contro-volontà. E lì i miei libri erano gli altri: più leggevo e più soffrivo e più soffrivo più crescevo. L’espansione lacerava diagrammi e tessuti e mi ritrovai dentro spazi immensi. Nacque così una certa predisposizione all’accoglienza, all’ascolto e alla visione. Uscii dai miei abiti per indossarne altri e altri ancora. Ritrovai nella putredine una bellezza dimenticata. Avevo letto che sulla luna vanno a finire tutte le cose perdute, qualcuno così riprese il senno. Lasciando il sistema, nel sistema. Nei luoghi di frontiera dove sfuma l’umano e si è prossimi al vero e alla ferocia. Bestie al mattatoio della devianza, ai margini del sociale, dove la solitudine è più buia del buio. Dal fondo di tutte le cose perse, a quattro millimetri dall’asfalto, o precipiti o spieghi le ali. Quanta fatica sul dorso dei soldati, nel fetore immondo della trincea. E ci guardavamo prima di rompere le righe e riposare. Un ragazzo disse che sarebbe stato bello essere uno stormo di uccelli migratori. Qualcuno gli rispose che non era vero perchè se uno solo di noi sbagliava direzione gli altri lo avrebbero seguito e ci saremmo trovati tutti al Polo Nord! Si rideva anche, nel miglio. Come posso dimenticare? E se qualcuno usciva eravamo felici, anche se non l’avremmo più rivisto.

 

Il dottor G. mi parlò degli ospiti inattesi:

-“Organizzi una festa a cui tieni tantissimo. Hai fatto la spesa, addobbato casa, comprato da bere. Inviti tutti i tuoi amici. Ad un certo punto bussano alla porta persone che non hai invitato, che detesti. E tu fai finta di niente all’inizio. Poi bussano sempre più forte, sempre più forte. Prendono a spallate la porta, vogliono entrare a tutti i costi. Che fai?”

-“Io non lo so, cercherei di mandarli via in qualche modo!”

-“E se non puoi mandarli via? Tu spingi la porta dall’interno, loro dall’esterno. Passi tutto il tempo a cercare di non farli entrare e poi? Hai faticato tanto per organizzare la tua festa e non la vivi!”

-“E cosa dovrei fare?”

-“Lasciali entrare…”

-“Alla mia festa chi detesto?”

-“Si, troveranno il loro posto. E tu avrai il tempo di stare con i tuoi amici, il tempo di vivere.”

 

Torno spesso all’aneddoto, con la mente. Ad ogni graffio del mostro che mi abita le viscere. Non posso mandarlo via: verrà con me a tutte le feste. Ho imparato la sua lingua e so tenerlo a bada.

Non ho trovato il paradiso dall’altra parte del corridoio. A volte persino mi manca quella prigionia: era tutto così reale, dentro. E qui fuori non c’è compassione, nè attenzione, non c’è accoglienza, nè verità. Per questo, anche qui, c’è da armarsi, mettere insieme un piccolo esercito, costruire un nido di sangue e volontà. Anche qui c’è da aprire le porte ai nemici, provare a perdonare se possibile, sfrondare la superbia, e uccidere solo per sopravvivere. Mai puntare il dito e fare della sincerità la più alta forma di rispetto.

Il mio pensiero questa sera, va a chi mi somiglia, a chi piange ridendo e ama i risvegli, a chi conosce la bellezza e non si accontenta, a chi non ha mai smesso di combattere e conosce la misura delle cose, a chi torna a casa stanco dopo il lavoro e sorride, a chi ancora crede e si emoziona, a chi ringrazia, a chi non si nasconde e si mette in discussione, a chi spera di essere sempre migliore…

Il mio pensiero va a chi ha la vita dentro e fuori.

Delia Cardinale

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