Stamattina mi è capitato sotto gli occhi un video che aveva dei connotati talmente assurdi, da risultare un punto di partenza interessantissimo per una riflessione sui mezzi di comunicazione contemporanei: una persona ha filmato ciò che avveniva all’interno di un piccolo aereo appena precipitato nel mare delle Hawaii. Questo improvvisato reporter, insomma, trovandosi a bordo di un velivolo che si stava inabissando in un mare infestato dagli squali, ha dato priorità alla pressante necessità di documentare ciò che stava accadendo, piuttosto che pensare a mettersi in salvo. Risultato: un filmato che toccherà sicuramente numeri di visualizzazioni da capogiro, traffico di utenti superiore a quello di qualsiasi videoclip musicale della rockstar più in voga, migliaia e migliaia di commenti, “mi piace”, dibattiti virtuali. Il sogno di qualsiasi blogger, filmaker amatoriale, reporter, ma forse anche di qualsiasi utente del variegato mondo dei social network.

Il prezzo da pagare? Semplicemente – si fa per dire – il rischio di non sopravvivere a un disastro aereo nel quale si è riusciti, già con una considerevole dose di fortuna, a toccare la superficie dell’acqua indenni.

Non ho potuto fare a meno di chiedermi come si faccia a raggiungere una simile dose di incosciente follia, votata al raggiungimento del traguardo più ambito del mondo moderno: diventare dei fenomeni del mondo virtuale.

Eppure.

Eppure devo ammettere che, nel profondo, per quanto la mia coscienza mi porti a stigmatizzare questi comportamenti – estremi fino al limite della follia – in un angolo remoto del mio inconscio so che, qualora mi fossi trovato io nella tragica situazione di quello sfortunato passeggero, una parte della mia mente mi avrebbe chiesto di fare altrettanto.

Da più di due settimane sono stato spinto, da episodi che non starò qui a raccontare, a disattivare temporaneamente il mio account Facebook, con il risultato di essere scomparso dal mondo in blu del più famoso dei social network dopo cinque anni di intensa attività. Devo riconoscere che l’urgenza di condividere le foto, commentare le notizie, esprimere opinioni, confessare l’inconfessabile attraverso le parole di una canzone si fa ogni giorno più pressante.

Per intenderci: se in un giorno di inverno sono stato sulla spiaggia in cui trascorro tutte le mie estati e non ho potuto condividere la gioia di rivedere quel mare a cui sono tanto affezionato, ricevere commenti che attestavano il desiderio di essere lì con me in quel momento, o meglio ancora di poter tornare indietro nel tempo ai caldi mesi di luglio e agosto, a tratti mi è sembrato quasi di non esserci stato, in quel posto.

Questo mi ricorda un pomeriggio di una decina di anni fa quando, con la mia prima macchina fotografica digitale e una nascente passione incontrollabile per la fotografia, mi ritrovai per le calli di Venezia assetato di tempo per poter camminare e scattare, immortalare le atmosfere magiche della città in un’infinità di istantanee. Un amico mi chiese se fosse la prima volta che mi trovavo nel capoluogo lagunare: gli risposi che ci ero già stato, ma non avendo mai avuto con me la mia fotocamera nelle precedenti occasioni, mi sembrava come se fino a quel momento non avessi mai visitato quel posto.

Oggi, oltre a immortalare e rivedere, abbiamo la pressante necessità di condividere.

Per la prima volta mi sto rendendo conto di quanto sia cambiato il nostro mondo da quando Facebook è entrato nelle nostre vite, rendendole a tutti gli effetti più virtuali che reali.

Ma l’essere lontano dalla mia home page blu mi ha portato a riadeguare i ritmi di vita alle nuove condizioni al contorno che sto, mio malgrado, vivendo.

Così ho riscoperto forme di interazione che credevo quasi sepolte, e nelle ultime settimane ho intensificato alcune piacevoli attività.

Prendere un caffè ad un bar sulla muraglia con un’amica, ad esempio, guardandosi negli occhi e chiacchierando, confidandosi, scambiandosi consigli.

Bere una birra al pub con gli amici, godendo della pungente sensazione di far sentire escluso chi ha preferito rimanersene  casa.

Chattare su Skype o Whatsapp, direttamente con una persona, in lunghe chiacchierate scritte ma fatte di frasi dirette, senza allusioni che potessero dare adito a fastidiose incomprensioni.

Toccarsi, guardarsi negli occhi, abbracciarsi, darsi pacche sulle spalle, persino – anche se non è stato il mio caso – esplodere in sane scazzottate liberatorie.

All’appello mancano solo le lunghe chiacchierate telefoniche, ma questo, per quel che mi riguarda, è scontato a causa del pessimo rapporto che ho sempre avuto con l’apparecchio in questione: se devo prediligere il mezzo parlato a quello scritto preferisco farlo di persona e non attraverso il suono metallico a 8000 Hz di onde elettromagnetiche trasmesse dall’etere o da vecchi cavi consunti.

Nonostante tutti questi buoni propositi devo ammettere che il desiderio di condivisione si fa ogni giorno più pressante: mi mancano i commenti, le interazioni con gli amici dall’altra parte del mondo, mi manca essere taggato e mi manca misurare a suon di “mi piace” la popolarità di una mia affermazione, sottoporre all’occhio di centinaia di persone le mie foto, le mie poesie, i miei pensieri vaganti. Conto quotidianamente i giorni che mancano alla riattivazione del mio account, insomma, lottando contro la tentazione di farlo in anticipo rispetto a quanto mi ero prefissato, ma prima di tornare sulla Grande Piazza Virtuale voglio recuperare fino in fondo l’equilibrio nato da questo periodo di parole dirette, spontanee, senza fronzoli.

Perché se è vero che con le allusioni, con le canzoni, con spezzoni di film o frasi rubate ai libri si possono creare mondi speciali, colorati, indimenticabili, è anche vero che a volte le parole non dette possono creare più incomprensioni che spiegazioni, più ferite che sorrisi.

Voglio tornare a parlare la mia lingua, insomma, e se è innegabile che la mia lingua non possa prescindere da poesie, racconti, fotografie e canzoni, voglio tornare a usarle in maniera corretta ed equilibrata.

I miei rapporti interpersonali ne trarranno giovamento, e gli amici e le amiche con cui, nelle ultime settimane, ho avuto modo di incontrarmi, chiacchierare, chattare, bere un caffè o una birra sanno che abbiamo recuperato dei momenti molto preziosi.

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