Ho sempre amato le ipotesi.

Le ipotesi sono le ipotenuse del pensiero. Evitano l’angolo retto, scorrono oblique, velocissime, ti portano dove forse non arriverai mai perché i triangoli, quelli veri, non sono mai perfetti. Spesso restano sospesi e non misurabili. Certo Pitagora ne soffrirebbe, ma avrà conosciuto Mirò nell’iperuranio.

O un bambino che fa gli scarabocchi.

Chissà come sono i semicerchi costruiti sui cateti.

Chissà che fine ha fatto Ettore Majorana. Chissà se tutte le cose dimenticate finiscono sulla Luna. Chissà se l’amore è un’invenzione, un adattamento culturale o una forza primordiale. Chissà cosa ne hanno fatto gli abusivi impuniti di quella pecorella di ceramica col profumo di mia nonna. Chissà di chi era quella sigaretta lasciata a metà, proprio ieri, vicino al distributore di via Rosa Luxemburg. Chissà cos’ha pensato Plinio il Vecchio nel 79 d.C. Chissà se quella ragazza l’ha trovato poi, lo stupido post-it nel libro che avevo scritto pensando che ne sarebbe valsa la pena.

Chissà…così tante cose.

Tante di quelle cose che mi spezzano il cuore.

Ho sempre amato le ipotesi.

Specie quelle indimostrabili. I black worms, gli amori non vissuti, il gatto di Schrodinger, il modo condizionale: tutto ciò che non è a portata di ciclo biologico. Si può immaginare, così, che una specie di soggettivissima perfezione possa esistere davvero.

Ho sempre amato le ipotesi indimostrabili perché, scegliendole e se mi concentro davvero, viaggio nello spazio-tempo, vivo un amore immenso come quello dei libri, il gatto è sempre vivo e il condizionale non esiste.

Ho sempre amato le ipotesi.

Senza l’astrazione che le genera non avremmo conosciuto niente di ciò che ci circonda. Non la buona cucina, non la legge della gravitazione universale, non le persone che fanno la differenza o le storie che incantano.

Ho sempre amato le ipotesi. E forse una parte di me vive solo grazie a loro, alle possibilità che si schiudono oltre le scelte, oltre il senso comune, oltre la logica e l’empirismo.

L’hic et nunc nel frullatore.

Eppure tutta la meraviglia del “se”, la pletora possibilistica del pensiero, può essere molto pericolosa. Bisogna saperlo. Bisogna ancorarsi al verbo essere prima di spiccare il volo. Prima di immaginare. L’ho scoperto tardi, come Gliese 832 e la costellazione della gru. Come l’Yggdrasil e le proprietà della curcuma.

E allora ho pensato, amando le ipotesi, che viviamo milioni di vite. Miliardi di emozioni. Che è come dire: se non ti posso amare per la strada, ti amo in qualche altro posto. E non importa che tu lo sappia o che sia vero.

E sarai bellissima perché sarò io a vestirti di te.

Non ti conoscerò mai, ma ti decido ogni splendore.

E dove tu sbagli, qui, nella mia ipotesi, è tutto perfetto. Non dovrai preoccuparti di niente perché esisti  solo in controluce, solo nel viola del pensiero di qualcun altro.

 

Ho sempre amato le ipotesi.

Specie quelle indimostrabili. Le ho sempre amate perché mi prescindono. E se mai dovessero essere smentite, non lo saprò mai.

Morirò credendole eterne.

Morirò sapendo che continueranno ad esistere.

È confortante come una stufa al circolo polare artico. Come le lenzuola pulite e la Croce del Sud. Come una donna di spalle che lava i piatti lasciandosi guardare. Come l’odore del caffè quando davvero non riesci a svegliarti.

Ho sempre amato le ipotesi.

Specie quelle indimostrabili.

 

Delia Cardinale

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