Era il 17 febbraio, quando ho pubblicato la storia, su Instagram, per annunciare al mondo dei miei (pochi) followers che era uscito il mio nuovo romanzo.
Del virus si parlava già, il mio dentista lamentava la difficoltà nel reperire le mascherine necessarie al suo lavoro, ma tutto sommato sembrava un’eventualità remota.
Ero entusiasta.
Avevo ottenuto un sabato, come data per la prima presentazione in una delle librerie più ambite della mia città, avevo fissato anche Matera e Napoli – due luoghi a me molto cari, decisamente simbolici per aprire quello che si preannunciava un lungo tour – e credevo tantissimo nel lavoro che avevo fatto.
Poi è arrivato il virus, sono arrivati i morti, la perdita della libertà; ci siamo dimenticati, con un colpo di spugna, di cosa fosse la normalità. Oggi, a metà aprile stiamo qui a chiederci come sarà andare al mare, questa estate: da quando sono nato, per me, la cosa più istintiva che sia mai esistita, prima ancora della masturbazione, del sesso, della birra.
Ovviamente il romanzo è caduto nel dimenticatoio, com’è giusto che sia, di fronte a un’emergenza di queste proporzioni: è stato praticamente cancellato dalla faccia della terra per non venir più riabilitato, probabilmente, e adesso mi da la nausea anche solo prenderlo in mano per sfogliarlo.
Così come mi da la nausea il solo pensiero di rimettermi a scrivere.
Come si può scrivere, in un periodo di totale assenza di stimoli visivi, di esperienze, di contatto con la natura e con la società? Dove troverò i miei personaggi, se anche solo uscire per andare a fare un po’ di spesa con indosso la mascherina mi solleva l’asticella dell’ansia al di sopra del livello “iperventilazione”?
Se ci si è ridotti a parlare col lievito madre, a vederlo con gli occhi pieni d’orgoglio per quanto cresce – come faceva mia madre, segnando sul muro una tacca ogni volta che misurava l’altezza a me e mio fratello, durante la pubertà – vuol dire, senza mezzi termini, che la nostra vita racchiusa in una scatola non può essere abbastanza interessante da stimolare la creatività. E sia ben chiaro: non mi sto lamentando, giacché la mia quarantena, tutto sommato, può considerarsi dorata, piena di fortune e piccoli diamanti brillanti; è innegabile, però, che ci sono alcuni aspetti della nostra vita che non possono trovare il giusto stimolo in questa situazione.
Gli amici musici riempiono gli spazi vuoti con esibizioni in diretta Facebook o Instagram, dove le voci giungono scartavetrate dalla qualità del wi-fi e le batterie vengono sostituite da pad elettronici o da fustini del detersivo, a seconda dell’attitudine del drummer. Dovrei farlo anch’io, mi ripeto: reading, videointerviste, dirette. L’ho anche fatto, all’inizio: quando ero ancora disperato piuttosto che rassegnato. Adesso, però, basta: un silenzio ostinato gira la sua chiavetta per accordarsi a quello che si respira nelle strade, fuori da questa finestra, alle dieci di sera, mentre la mia mente corre a ricordare quanto amava la caciara che sciamava in strada a primavera, qui al Sud.
Torneremo a scorrere, come dice Manuel Agnelli, ma difficilmente sarà come quando gliel’ho sentito cantare, la scorsa estate, in mezzo a migliaia di corpi sudati.

Testo, fotografia e lievito madre di Manlio Ranieri

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Si può scrivere un romanzo sul lievito madre? di Manlio Ranieri è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
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