La sindrome da reflusso emotivo gli fa sempre un certo effetto, a metà tra l’arto addormentato e la scossa elettrica. Leggendo i fondi dei bicchieri, la posa nerastra del pensiero ricorsivo e la disposizione dei piatti da lavare, riesce improvvisamente a comprendersi, come tornando a qualche luogo mitico dell’infanzia, come allo specchio di lunedì. Il Maestro è sempre stato molto saggio, ma non aveva mai usato questa dote prima di quattro anni fa. O meglio tre. Si era convinto presto che solo poche parabole tendono a infinito, ma questa verità ha fatto fatica a insediarsi nella sua mente.

Come tutte le verità.

Sorride dal futuro remoto contando fino a tre, immaginandosi vestito di rosso.

Il Maestro sapeva dal primo impasto, dalla prima scorza di limone biologico, che il suo cuore avrebbe fatto la stessa fine delle brioches col tuppo. Sapeva perfettamente che trecentosessantacinque poesie sarebbero morte in qualche sciacquone. Lo sapeva, da quella notte di febbraio in un divano scomodo, che tutto sarebbe stato inutile.

Anche Patty Pravo, Dio o Roma capitale, Eppure, all’epoca, combatteva con la sua intelligenza per le ragioni della collera, di un amore selvaggio e suicida che avrebbe imbrattato ogni costola, ogni parete.

Una sera qualunque di novembre, banale e solitaria come gli ubriachi notturni, si ritrova a cucire l’ennesima toppa sul pastrano del menefreghismo. Ha cominciato a cucire tre anni fa, dopo che il senno gli era finito in una cisterna sulla luna, come tutte le cose dimenticate. L’aveva ritrovato poi, sotto un cavolo nel giardino, come nelle storie a cui credeva da bambino.

La vita ha sempre un banco dei pegni da qualche parte.

Il Maestro non dirà mai a nessuno cosa ha dovuto scambiare.

Ma questo suo mantello, dopo lo scambio, era diventato una specie di guscio, una specie di fortezza. Vista da fuori è impenetrabile, dura, adamantina.

Dentro, dentro è un benevolo inferno. Si convince ogni volta che la sua Vergine di Norimberga sia una seduta d’agopuntura. E la vive così, conoscendo l’esatta posizione di certe spade, preparandosi a nuove nevralgie, chiudendosi in se stesso come una scala a chiocciola. Chi lo incontra al bar invidia la sua armatura, senza sapere. Chi gli parla crede che ogni male gli scivoli addosso, decidendogli una qualche dote straordinaria. La delusione del maestro è, invece, un oceano che goccia lento, tra le toppe di stoffa, tra le maglie d’acciaio. Scorso il tempo delle tempeste, lo scorsoio violento dei punti di rottura, il dolore delle fratture cardiache, tutto è diventato  una Shanghai di contrappesi ponderati dalle prime consapevolezze. Da quell’imperscrutabile scrutare che affina ogni caffè, ogni calice. Al primo infinitesimo cigolare, l’avanguardia s’arresta esangue e aspetta. Aspetta una sorpresa che non arriva sapendo che non arriverà.   Il Maestro indovina la sofferenza dopo che ha imparato a viverla. Non si risparmia mai nell’indicativo presente, ma ha imparato a non raccogliere più le speranze cadute dagli alberi, le speranze che non sanno allacciarsi le scarpe. Moriranno comunque, nonostante le cliniche, nonostante l’amore.

Ricordava perfettamente tutti i sacrifici e sapeva-cazzo se lo sapeva- che la bellezza è davvero costosa: per questo il Maestro era stato sommerso di debiti, per questo era annegato. E comunque non era rimasto niente di tutti quegli sforzi: era stato dimenticato. L’inutilità di questo ennesimo “ti aspettavo”, la mediocrità di tutte le superfici, la feroce lucidità di aver già scritto tutto tremando, la mano già ritratta che solletica il nulla coi mignoli: tutto questo gli scorre dentro placidamente.  E allora, oggi, riprendendo ago e filo, tornando dalla Vergine, si sente olimpico, solo, al di là di un fosso antico. Certo, il Maestro pensava che sarebbe stato bello…sarebbe stato davvero bello, per una volta, non avere ragione.

Delia Cardinale

 
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