Dal tacco alla punta non basterà: per questo l’urgenza di vivere nel qui ed ora. Dal tacco alla punta. Un paese a forma di stivale deve essere necessariamente fatto per i calci in culo. E la pioggia, il freddo, le foglie secche. Tra la Arendt e i Radiohead non posso che ripercorrere tutti i boschi dell’infanzia. Ritrovare tutti i lupi e i cuori di strega. Come nel sogno con le tre anfore. Le vedo danzare nel bicchiere, prima dell’ascesa di Margherita. Dal fondo giallo cromo. Con l’indice a metronomo e il cipiglio del no. Lei che sposa qualcun altro mentre io disegno gatti e cerco nei libri qualcosa che non si trova. I fiori gialli per esempio. O il seguito di quella storia rimasta a metà. Quella di Menghele nelle favelas. Ma ce ne sono così tante di storie rimaste a metà, tante quanti i fili di lana di Oliveira. E devo parlare tantissimo, toccare le cose, per non morirci dentro. Dentro tutte le storie. E se seguissi davvero il Bianconiglio? Anche se non è mai stato bianco. Né un vero coniglio, forse. Non lo so: non l’ho mai raggiunto. Dovrei dimenticare la burocrazia, i pavimenti, le vie della città. Soprattutto via Zuppetta. Ma via Zuppetta io non posso dimenticarla. Lì ho sentito il mio cuore battere per l’ultima volta. A volte vorrei che esplodesse. Via Zuppetta. Perché non è giusto che continui ad esistere. Tante cose non sono giuste. E mi strappo le pellicine con i denti ascoltando musica, pensando a tutta la bellezza in potenza che resta nei parcheggi. Ma non posso fare nient’altro, oltre a tendere la mano. Zaino in spalla fischiettando Dio. Una donna di spalle è sempre molto poetica. Mi ripeto sempre che in Sudamerica c’è qualcosa, forse la Maga, forse un grosso pesce con cui combattere, forse la fine di tutte le storie. O il posto in cui liberare questi demoni. A volte tirano così tanto da slogarmi gli omeri.  E vorrei chiudere gli occhi, lasciarli andare. Ma, come tanti altri, mi sono ripromessa di domarli. E imparo i tarocchi, gli scacchi, la chimica delle particelle. Imparo la politica, i capricci della serotonina, la rivoluzione industriale. Perché è meglio saperle le cose. Le cose dell’oltre, intendo. Non del proprio piccolo mondo di piccole emozioni, di cui nessuno si cura. Quello resta uno spettro sotto lo sterno. Uno spettro molto strano. Così felice…e così triste. Ho raccolto venti centesimi dal marciapiede per lasciarli nel distributore automatico. Perché una volta volevo offrire un caffè a quella persona. E quella persona  non beve caffè. L’ho trovato così ironico… com’è diverso il mondo degli altri. Non importa così tanto la geografia, a pensarci. Maledetto Goethe! E maledetti i semafori. Che poi se Margherita dice no non è Margherita. E io non avrò perso niente. Nel mentre si diventa più immensi. Pronti a sorridere agli specchi e alle allodole. E questo, questo fa la differenza. Nei riflessi sono stata mille cose senza comfort. E tutti gli altri qui…sulle scale di casa. Vi sento così forte da sbarrare porte e finestre.  Perché voi non avrete nessun paio di guanti per maneggiare il mio cristallo. E mi fate a pezzi, continuamente. Non lo sapete, perché mi rigenero in fretta. E  torno a splendere. A cucinare per voi, decidervi belle parole e poesie. Ma mi ammazzate. Ogni giorno. E un giorno….un giorno vi ucciderò a colpi di mitra. E smetterò finalmente di sentire. Che brutta maledizione. Mi seguirà fino al polo nord.  Andrò via…e dovrò comprare una bilancia nuova. Spero sia azzurra. Come i cartelli di obbligo e l’iperuranio. La valigia dietro la porta ha qualcosa di commovente. Anche se mi aspettavo una qualche rivoluzione dalla seconda persona, vince sempre la prima. E tu che leggi, pensaci. Alla prima persona. Singolare e plurale.

Delia Cardinale

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