Le ore passate a fissare il vuoto, tutto quel nulla davanti quando avrebbero potuto esserci colline e boschi, brulicanti di vite.
Credete che non me lo ricordi, com’era essere felice, com’era essere vivo?
Il problema è proprio quello: me lo ricordo troppo bene, è un impulso elettrico che segue le traiettorie dei fasci di recettori, appena sotto la pelle, illudendomi di un brivido di piacere che, invece, si rivela una lama che ferisce senza lasciare traccia di sangue sull’epidermide; lacera un po’ più sotto, quel tanto che basta perché da fuori non si veda che un livido.
Ricordo bene com’era essere sereno e ricordo com’era essere felice. Ricordo l’energia generata, il balzo degli elettroni da una lacuna all’altra, a sprigionare elettricità fottendosene della banda proibita.
Ricordo com’ero io: gli occhiali da sole e le parole; mi facevo persino fotografare, a volte.
Non sono sempre stato solo ombre.
Scrivevo con la luce e con la penna. C’è stato un breve periodo, una macchia di luce di calura estiva, un laghetto di sangue e sudore assorbito da lenzuola sporche, in cui mi ero illuso di saper scrivere persino col corpo.
Le ore passate a fissare il vuoto non conoscono la via di uscita, perché nel vuoto non ci sono porte: ve la immaginate una porta nel nulla, senza muri attorno, da forare, da attraversare? Trovano noiosi i vostri varchi virtuali, quelle feritoie attraverso cui gli occhi guardoni spiano un mondo la cui luce è diventata troppo accecante per i fotorecettori abituatisi al buio.
E’ solo lunedì.
E’ già lunedì.

Manlio Ranieri

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