A volte la persiana s’inceppa. Basta un cacciavite che puntualmente prendo dalla scatola. Mi ricordo perfettamente quando l’ho comprata. La mia scatola.

La custodia prima non era un oggetto, ma un concetto.

Mi piace pensare che certe cose sono essenziali. Non si può vivere senza la scatola, senza il cacciavite.

Non sapevo che la persiana s’inceppava: è da poco che vivo qui. È sempre da poco che vivo in un posto. Ma un cacciavite serve sempre. “Caccia” – “vite”: quante cose da imparare dal più umile degli oggetti. Che poi ce ne sono almeno 13 tipi. Di cacciavite. A seconda della vite. La torq-set ricorda una svastica, la robertson una piazza di paese. Le viti sono strane, come le vite.

Non si può non coniugare tutto al plurale, sperando di avere gli strumenti giusti sempre. Certo tu non puoi capire tutto questo se non hai una scatola. I miei traffici restano al di là, tra lattine e anime di carta igienica. Questa ostinazione del servirà. Serviranno. Solo perché avevo costruito un finto telescopio.  E poi un finto microscopio. Tutto dipinto con la tempera grigio-nera del mondo. Le cose per essere reali non possono che essere grigie o nere. I computer, le lampade, uno schermo spento, le chiavi di casa e pavimenti, borse, penne bic, rubinetti, cavi elettrici, carta carbone, pannelli solari, strade, padelle, chiodi, fumo di sigaretta.

Guardo il mondo più di te, ho sempre pensato questo. Ma non so se è vero, neanche ti conosco. Chi diavolo sei? Un generico individuo qualunque con una voglia sulla guancia sinistra, magari… o una bicicletta gialla, un rametto di lavanda a pagina 58, gli occhiali sporchi. Qualcosa deve avermi attratto e deve essere necessariamente qualcosa di inusuale. Forse anche tu sei come me e non devo voltarti le spalle o fingere di non dare la colpa di tutto al capitalismo. Anche se col socialismo non sarebbe stato diverso. Potremmo parlarne giocando a nascondino in un ristorante fino a farci cacciare. E poi finire al porto per la birra sudata del camioncino. Ricordati che non ammetterò mai che mi piace la maionese. E preferirò sempre il ketchup.

Potremmo smettere insieme di guardare i media, oggi tutto è immagine. Per questo sta morendo l’immaginazione. Smetteremo di guardare i media per paura delle proiezioni subliminali che ci costringono a mangiare vegano, comprare il detersivo doppia azione, spacciare uguaglianza per le strade, desiderare gli ultimi cereali alla tiamina.

Potremmo anche farci le acconciature. Mi ha sempre fatto ridere pensare alla gente con i capelli diversi. Ti direi di comprare del gel e tu dovresti dirmi che è cancerogeno. Metterei il broncio e poi potremmo inventare un modo per fare pace. Una campana magari o una gara di cicchetti che perderei alla prima pianta. O fare a chi ride prima: qui ti batterei io per il tic nervoso.

Ti regalerò un cacciavite nel giorno più qualunque e tu, forse, un bracciale di filo. Anche se preferirei parlare della Guerra dei Trent’anni o delle replay alle scuole elementari. Tu di cosa vorresti parlare? Ti va di giocare anche ad aggiustare la persiana? Tanto se non ci riusciamo importa poco, andrò via anche da qui. Potremmo dipingerla d’azzurro dopo, se ti piace l’azzurro. Hai mai fatto un numero a caso? Dov’è che vuoi andare? Io conosco tanti posti dai documentari.

Potremmo scavare una buca per seppellire la mia scatola e provare a vivere senza. Mi vedresti tra gli uccelli morti a fare fotografie come quelle vere. Non i click di tutti. Chissà perché tutti scelgono di fare fotografie oggi, ruba poco tempo forse. È immediato, l’hobby dell’istante non del labor limae. Indovinare l’istante non crearlo. È la resa realistica: a Verga sarebbe piaciuta, forse. La perfetta eclissi del narratore. Sto divagando come sempre e già penso ad altro.

Potremmo brevettare finalmente il lava-denti da letto o il macinapepe digitale. Ci pensi mai all’inventore del trolley?

Potremmo costruire un distributore di poesie e stuzzicadenti e salviettine monouso, aprire una clinica per le tazze rotte o uno scasso di pensieri arrugginiti, adottare un lampione o un albero del centro città, chiamarlo Atalante o Eugenio o come te. Sì, chiamarlo come te così non morirai.

Dammi qualche idea anche tu. Sono stanca delle cose comuni. Tu chi sei? C’è sempre qualcosa che non posso avere. Ora sei tu ma potrei, potremmo. Nessuno legge Proust.  Non so se basterà sempre il mio cacciavite per la persiana, per lasciar andare qualcuno e far posto a qualcun altro o regolare la tensione delle cose della vita. Non so se basterà conoscerti.

Tu potresti camminare accanto a me per un tratto e poi scendere dal tram. Continuerà tutto a scorrere come sempre nel finestrino, ma almeno ci saremmo divertiti. E poi, in fondo, sono davvero brava ad aggiustare le cose, potrei addirittura prestarti la mia scatola. Ma non servirebbe né potrei separarmene se non per scherzo. È come con i portafortuna o le pellicine e le felpe larghe.  Comprati la tua, pezzo per pezzo. Non si può giocare insieme altrimenti. Non sopporterei di doverti spiegare sempre tutto. Se dico maschera tu devi già sapere tutto sulle maschere. E se tu dici blu io devo già sapere tutto sul blu. E poco importa se te ne andrai: ti ricorderai sempre tutte le maschere del mondo, e io tutti i blu. Ne avremmo trovato l’essenza: bisogna essere almeno in due per questo. Il mio problema è tutto ciò che non riesce a esistere o si rompe all’improvviso.  La mezza maschera blu. Qual è il tuo?

Delia Cardinale

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