Ho sempre amato le librerie: templi della parola declinata in ogni senso, piani cartesiani da cui scivolano via ogive e scarabocchi emozionali, scatole concentriche di lexis, logos ed entropia. Contando i passi, da uno scaffale all’altro, dalla saggistica alla poesia, ho spesso rinvenuto tra pagine sconosciute una qualche ispirazione, armoniose perifrasi, tecnicismi avvincenti, spigolosi anfratti della lingua, atavica umanità sciolta nel fascino d’ignoti sintagmi: mendicante in gioielleria a dita tese verso tutti i preziosismi che non conosce, prono sul tappeto incompiuto di una scrittura acerba, in divenire. L’elemosina che i grandi del passato mi hanno deciso, l’obolo eucaristico versato dal santo inchiostro dei libri nel cesto umile di questi palmi, è come un miracolo: sfugge nell’esplicazione la meccanica del suo svolgersi, ma è quanto mai palese ogni conseguenza, empiria della penna che cavalca mille destrieri di carta.

Ma ieri non ero sola a consumare i miei riti. Non ho catturato neanche un titolo, una nuova uscita o cercato quel libro che volevo ( “l’espropriazione della salute?”). È stato come vivere un’isola incerta rescissa dal continente dell’assoluto. C’era lei, come sempre inafferabile, come sempre persa in chissà quali pensieri il cui rumore accende la mia curiosità inamovibile. E la guardavo di sottecchi come con quegli oggetti senza significato che destano i pigri fanti dell’emozione. Senza un logico perchè, lungo i fili sbilenchi del mio sentire distorto, ultra-sensibile. Ho cercato, nel misterioso intrico di sculture di carta, un due blu. Non poteva che essere nascosto tra rettangoli, trapezi, apotemi e figure curvilinee in libera associazione cromatica. Da un lato all’altro della superficie di ogni scultura cartacea, si è svolta la smasodica ricerca dell’oggetto. I suoi occhi. I miei occhi. Lontanissimi ma concentrati su tangenti e rette parallele, secanti, incrociate…di mille colori adorne, confuse e accattivanti, geometria circense sotto le ciglia e una specie di strana competizione nella ricerca di quel numero, brillante a tratti, spezzato, riflesso, in frammenti infinitesimali. Quel due blu non poteva che essere a rovescio. Simbologia speculare di un rapporto senza sussistenza, aleatorio come le direzioni diverse, e gli sguardi nel vuoto. Finito il gioco, ucciso il due, è ricominciato chiasso amaro della realtà. Eppure ho mostrato un altro piccolo scorcio del mio essere tutto e niente. Ed ero tranquilla, con lei che non può sfiorarmi. Bellezza delle piccole cose e dei momenti condivisi, solo di questo so godere: l’istante, raramente l’ora in cui tutti i pensieri s’addensano in un punto. E lei, di sicuro, avrà dimenticato le regole del gioco e i castelli di carta. Ma che importa? Non ho mai avuto bisogno di andare oltre: il piacere è una sinusoide umorale che ascende e decade di continuo, annidandosi nel quotidiano di ogni mia microscopica esperienza. Libertà assoluta dal nominare le cose che di per sè esistono, anche solo nella breve vita di un fiammifero.

Delia Cardinale

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