Oggi è una giornata praticamente primaverile. Oggi esce il nuovo album dell’unico Vasco di cui valga la pena di parlare, nel panorama musicale nostrano.
E’ un album intriso di poesia, lo è in ogni verso, in ogni immagine, senza mai un calo. E’ poesia a volte radiosa altre nebbiosa, a volte carica di tutte le etnie del mondo altre racchiusa in un angolo di provincia. Non è un album per ragazzi incazzati né disillusi, anzi: forse raccoglie manciate di speranza dal fango, ed è per questo che potrebbe lasciare disorientati. Tuttavia l’impresa di infondere bellezza anche nella più profonda disperazione del mondo, nelle storie dei migranti in fuga, persino negli “scafisti che si orientano con le stelle” è così mirabile che vale la pena smettere qualsiasi tipo di corazza e sciogliersi in queste dieci tracce.
Del resto lo si dice anche in “Qui”: “è un superpotere essere vulnerabili, e adesso sono qui dove sono possibili cose impossibili”.
Sul versante musicale “Terra” appare la naturale evoluzione di “Costellazioni”, come se proseguendo il viaggio interstellare ci si fosse ritrovati a vagare su questo pianeta e lo si volesse fare nel modo migliore. Lo stile di Vasco Brondi rimane inconfondibile, ma la chitarra sola e arrabbiata ha lasciato spazio ad arrangiamenti completi, rotondi, spesso influenzati dalla musica del mondo. Ci sono percussioni e archi, c’è melodia e c’è ancora qualche urlo, sporadico.
Ma, soprattutto, ci sono una lunga serie di immagini indimenticabili, di storie che s’intrecciano, ci sono considerazioni amare sulle nuove forme di comunicazione (“Cantami o diva l’ira della rete / imprevedibile come le onde / cantami della fame di attenzione della sete / di ogni idea che si diffonde / cantami o diva dello sciame digitale / l’ironia sta diventando una piaga sociale / da qualche parte c’è ancora sporchissimo il reale / cantami della proprietà privata interiore / del rumore di fondo della società di opinione / cantami del diritto alla segretezza alla distanza alla timidezza / cantami dei posti dove il wi-fi non arriverà mai”). C’è una scrittura matura, insomma, laddove un tempo c’erano parole gettate alla rinfusa, con rabbia su un foglio, a disegnare sprazzi di genialità che però faticavano a trovare il giusto ordine. Se era bella quella forma folle di poesia senza apparente percorso, lo è ancor di più oggi che è sbocciata in maniera compiuta.
Le luci della centrale elettrica ha completato il suo percorso di passaggio da un punk rimasto a calcare i palchi senza band alle spalle a cantautore colto e raffinato. Può piacere o non piacere, ma vale la pena non precludersi la possibilità di amarlo fino in fondo.

Le persone cambiano – è normale – e lo fanno anche, e a maggior ragione, gli artisti. Stamattina, sulle prime note di “Terra”, hanno iniziato a scorrere nella mia testa le immagini di questi ultimi tre anni, dal momento in cui ho iniziato a conoscere meglio Le luci della centrale elettrica ad oggi. Dal concerto a Brindisi a cui sono andato con un pullman organizzato da Bari, che avrebbe potuto essere sponsorizzato dalla pagina “Adottare soluzioni punk per sopravvivere”, da com’era popolato, dalle voci che vi si ascoltavano dentro, elettriche (come le luci) nel viaggio di andata e pacate nella notte di quello di ritorno. Anche la mia vita, le mie voglie, i miei sogni si sono evoluti da allora. Li ho rivissuti tutti e ho capito di non averne lasciato andare nessuno, di aver dato il giusto peso a tutti. Sono invecchiato, sono ringiovanito, mi sono ritrovato. Il fatto che il primo ascolto di quest’album mi abbia reso visibili tutte queste cose, dal mio punto di vista, vuol dire che coglie nel segno, che sa risvegliare emozioni, sa farle esplodere come pochi.
Potere e bellezza della musica.

 

 

 

 

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