Quel lungo primo piano a sinistra, con le ventole lente impiccate e gli occhi bianchi incavati delle porte. A ricordarsi che un cuore non può pesare meno di una piuma e i profili egizi con l’occhio frontale non sono che tributi a un generico inviolabile. Come le barche di carta per la galassia. E tu sedevi immersa nella cellulosa viva, sulle panchine di metallo. Grigie come la giustizia e la scatola dei pensieri. Con le due K ossessive – Kafka e Kandinsky – oscene disforiche nature. Lì come un paio d’occhi azzurri a sognare l’ocra scura di Bisanzio. E non volevi guardare gli occhi delle altre: i tuoi, moltiplicati lungo le pareti alcaline. Dove solo i numeri contano e Nostra Signora del Controllo che lanciava offensive agli irriducibili strali di una qualche paventata libertà. Lì tu – donna vecchia bambina – incostante, ascoltavi i Doors e Chopin e quel silenzio innaturale che pochi sanno. Inconsapevole bambagia. E anche tu sei fortunata: oggi il barbone del sottopassaggio ti ha augurato una buona  domenica e qualcuno ti ha ascoltata, godendo di te. Come tu vuoi. Pensi alle figlie della Tempesta che ti hanno vista dove nessuno potrà mai più arrivare. E nascondi quelle ossa: che nessuno con parole o immagini può sfiorare la cognizione di quanto siano bianche. Di un bianco cattivo e meraviglioso. Quella setta precisa di streghe potentissime e fragili che nella violenza del corridoio imparavano a vivere, avendolo dimenticato chissà come. Stentoree ceramiche sui finimenti di un cavallo imbizzarrito. Perché certe strade piovono dentro quando non hai l’ombrello e ti attraversano da parte a parte. E qualcosa, sempre, ricorda quella pioggia: attimi d’oceano quando l’asciutto fa credere che non possa esistere il naufragio. L’ingenuità dei superstiti che smettono di avere paura: imprudenti creature  arroccate sulla torre d’avorio. Ma tu, che stringi gli occhi nella nebbia, hai già comprato una barca senza equipaggio.  Piena di libri e di animali. Annusando l’aria viziata e i sismografi. Che sulla sabbia si prende il sole non si costruisce una casa. E ci vuole la folgorazione del primo laterizio comprato al discount per gioco. Che barbaro coraggio quel miracolo. Per voi che siete state alla dogana. Le vedi girare le strade, alla pinacoteca, qualche volta dove non te l’aspetti, conoscendole ingiustamente. Sapendo del bianco e dov’è sepolto, se tutto è andato nel migliore dei modi possibili. Che ironia e che bella la vita in ogni caso. Il primo abbraccio dopo il disgusto e quel piccolo nido d’amore immenso. La teoretica dei fili d’erba e il modo in cui alzi le spalle, voltandoti se è il caso. E indovinando quel solo unico centimetro pulito in braccio alla discarica, per cui varrà sempre la pena sorridere. La bonifica prospettica di quando abbandoni la vedetta e te ne freghi dell’assedio, sapendo che il tuo castello è sempre con te. E pianti torrioni qua e là per vedere meglio senza che il tuo regno sia davvero da difendere. Non ti piace il pensiero del piantone e regali i raccolti. E loro, come te, fanno lo stesso. Inesauribili  e avide  nature che non tornano mai indietro. Dicendo alle tende, una domenica notte, che c’è così tanta bellezza ancora che sarebbe un peccato fingere di non vederla. Come quando esci per fare la spesa avendo il frigo pieno. Perchè due spaghetti si mettono sempre in piedi a qualsiasi ora: bastano otto minuti.

Delia Cardinale


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