Io penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a dire senza passioni e senza slanci sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio, una specie di cinghiale laureato in matematica pura.

Fabrizio De André

la tua voce come il coro delle sirene di Ulisse m’ incatena
ed è bellissimo perdersi in quest’ incantesimo

F. Battiato – Il Sentimiento nuevo, dall’album La voce del padrone 1981

La canzone d’autore in Italia

di Roberto Vecchioni

Pur partendo da due sistemi semantici preesistenti (il linguaggio poetico e quello musicale), la c. d’autore costituisce un’unità narrativa e metrica inscindibile. Non è infatti possibile separare musica e testo, così come non si può prescindere dall’interpretazione, che diventa il terzo elemento semantico essenziale: essa può dunque essere considerata una forma d’arte, e più specificamente un genere nuovo e autonomo.

La c. d’autore assume dalla tecnica poetica alcune figure retoriche, metafore, analogie, sinestesie, ma ne rende più immediata e ‘popolare’ l’intelligibilità e la fruizione, accorciando le distanze tra i due campi di lettura delle metafore (vero-traslato) e delle allegorie (simbolo-realtà). Essa elimina, inoltre, le componenti spaziali e temporali indefinite, collocando la storia, le emozioni o i sentimenti descritti in coordinate per lo più reali: anche dove si fa ricorso all’immaginario, si tratta di un immaginario collettivo già condiviso da chi ascolta e dunque facile a riconoscersi.

Sono rilevabili elementi di novità anche nei rapporti tra musica e testo. Quest’ultimo non è più infatti un valore aggiunto, funzionale alla melodia e costretto in una struttura intoccabile di note e accenti; si stempera la rigidità dello schema strofa-ritornello, le sezioni melodiche possono diventare tre, quattro, ripetersi con variazioni e riprese assai più libere che nel passato. Anche la lunghezza delle sezioni non è più dettata da canoni predeterminati, ma si adatta al contenuto, all’intensità dei sentimenti espressi. Scompare la ricerca di invenzioni melodiche altisonanti, si attenua il ricorso a preziosismi stilistici, a variazioni armoniche ricercate. G. Paoli ha detto “abbiamo scritto belle canzoni, perché non sapevamo scrivere canzoni”. Paradossalmente, questo apparente impoverimento costituisce la ricchezza effettiva della c. d’autore, permettendole di diventare appunto non un semplice accostamento di due parti ma un’unità nuova, anche se col tempo la melodia ha trovato nuove strade, si è arricchita e nobilitata, prendendo in determinati periodi addirittura il sopravvento.

Gli anni Cinquanta

Gli anni del dopoguerra, della ricostruzione, portano con sé in ambito artistico e culturale, e dunque anche nel mondo della c., un’atmosfera di entusiasmo, quasi un’esplosione di quanto per anni non aveva potuto esprimersi: la frattura con il passato è radicale e comporta un forte impegno nella rielaborazione dei linguaggi, tipico delle avanguardie.

In Italia tuttavia questo risveglio è particolarmente lungo e difficile, segnato da un’elaborazione culturale spesso confinata in circoli di élite, com’era d’altra parte avvenuto anche nel passato, in momenti parimenti cruciali e di svolta. Paradossalmente, pur su un terreno limitato, fra i primi ad accorgersi del rinnovamento mondiale sono proprio i ‘dilettanti’ della c., gli chansonniers, immersi nella rete comunicativa costituita da radio, giornali, sale da ballo, relazioni con i colleghi. La c. comincia così ad apparire un terreno ideale per esprimere in un linguaggio consono ai tempi il disagio dell’esistenza, la speranza, l’amore nelle sue varianti infinite. Mentre oltralpe cantori come J. Brel, L. Ferré, G. Brassens, G. Bécaud, Ch. Aznavour affrontano tematiche fino ad allora improponibili di interesse politico, sentimentale, sociale, anche in Italia cominciano ad essere proposti contenuti musicali popolari e progressisti (contraltare alle canzonette di consumo), grazie anche a realtà come il Cantacronache creato a Torino nel 1958 da R. Leydi, S. Liberovici, e altri; attorno a questa esperienza maturano gli autori del Nuovo canzoniere italiano (fondato nel 1962), come I. Della Mea, P. Pietrangeli, G. Marini, M. L. Straniero, F. Amodei.

Per altre vie giunge negli stessi anni, in termini spesso dilettantistici, l’apporto del rock e del country americano: questi generi schiudono nuove strade, variando e rinforzando lo schema fin troppo povero e lineare della ballata italiana e stemperando la retorica del nostro ritornello col loro incedere monocorde, discorsivo, essenziale.

Come molte rivoluzioni, anche quella della c. d’autore procede da un’élite culturale progressista e dai centri cittadini, più avanzati rispetto al resto del paese. È infatti prevalentemente la piccola borghesia urbana a operare la trasformazione, sebbene non manchi l’apporto degli strati più avvertiti del proletariato, pronti a cogliere l’importanza di questo nuovo veicolo espressivo di massa.

Avvisaglie originali, di emancipazione e rottura, si colgono già negli anni Cinquanta con R. Carosone, F. Buscaglione, B. Martino e altri: compaiono l’ironia, la battuta colta, la descrizione di ambienti inusuali; si adoperano per la prima volta termini che di poetico hanno poco. Ma lo spartiacque è di sicuro costituito dalle c. di D. Modugno. Fedele alla tematica dialettale popolare, utilizzando a volte direttamente i dialetti meridionali, schietto, semplice, nel 1958 Modugno si presenta a Sanremo con Nel blu dipinto di blu, eleggendo come luogo del suo beau geste il festival più visto, più rappresentativo della vecchia maniera di far canzone. E lì con una c. nuova, fantastica e reale assieme, sbaraglia l’universo di stereotipi edulcorati e la tipica tradizione melodica della c. italiana. Dal punto di vista formale Modugno ‘inventa’ il cantautore introducendo recitazione e interpretazione, mentre dal punto di vista dei contenuti da un lato aggancia la c. al surreale, alla lezione della psicoanalisi e dall’altro le dà, al suo sorgere, un’impronta popolare di ascolto fascinante.

Gli anni Sessanta.

Premesse così varie e disarticolate maturano negli anni Sessanta, grazie anche a mecenati e produttori illuminati come N. Ricordi, F. Crepax, i fratelli Reverberi per l’area genovese; E. Melis a Roma. Più ‘anarchica’ e artigianale è l’atmosfera di Modena e Bologna, mentre a Milano la c. assume una forte impronta politica, legata agli ambienti teatrali di D. Fo e G. Strehler.

I temi caratteristici del mondo della c. genovese, e di altri ambienti che a esso si riallacciano, attingono alla sfera affettiva: l’innamoramento, le storie a due, il distacco, guardati attraverso le cose di tutti i giorni e volutamente banali. G. Paoli umanizza oggetti e ambienti ispirandosi alla lezione dell’école du regard del cinema francese; L. Tenco accende una sorta di animismo nelle cose, nelle situazioni; il livornese P. Ciampi rende spietati i palazzi, le stazioni; il triestino S. Endrigo opacizza, ironizza, indaga i crepuscoli. Il rapporto di questi autori con l’amore ondeggia dalla spavalderia ironica allo sgomento arrendevole, tra brevi pennellate di ambientazione iperrealista. In Tenco l’amore è problematico e a volte diviene insopportabile. In Paoli, ligure per elezione, esso si fa varco, rifugio, nella scia di due grandi poeti liguri: G. Caproni ed E. Montale. Tristezza, ricerca del tempo perduto, inafferrabilità della vita emergono dalla saudadeportoghese dei genovesi e dal male oscuro di nebbie triestine, mitteleuropee di Endrigo, “sulla scia di Mann o Svevo” (Curi 1997). Paoli esce raramente dalla ‘parola-individuo’: il suo è un minimalismo voluto, una sfida alle possibilità dell’amore. Nelle c. di Tenco, più scoperto, si accavallano disfattismo, rabbia, richiami morali, ‘donchisciottismi’; è il testimone del disagio più profondo: i tempi, la falsità dell’esistenza, I’ipocrisia delle persone. E con il disagio l’impotenza, che sopprime la sua utopica ‘parola-società’. In F. De André la parola diventa viaggio, da La canzone di Marinella (1965) ai giorni nostri, sostenuta da un notevole bagaglio di riferimenti letterari. Se negli altri la parola chiave, l’assunto diretto, la stilizzazione, sono precisi confini espositivi, in De André il linguaggio si fa decisamente più astratto e ricco di suggestive metafore.

Per quanto riguarda le melodie, quelle di Paoli sono brevi, riflesse, ripetitive, mentre assai più semplici, tradizionali, ‘tenebrose’ appaiono quelle di Tenco; addirittura agghiaccianti quelle di P. Ciampi che descrive un unico, infinito, evento: l’abbandono da parte della sua donna. In De André la ballata è invece discorsiva, apparentemente calma, narrativa, e costituisce il genere prediletto da questo autore: nessun altro andamento metrico infatti è più adatto per amplificare e rendere paradigmatiche le odissee delle minoranze: prostitute, travestiti, civiltà emarginate da culture tecnologiche, banditi, assassini, rivoluzionari.

A Milano la c. d’autore ha origine teatrale, cabarettistica, con forte impronta politica e di impegno. Nasce il già citato Nuovo canzoniere italiano, L. Betti canta F. Fortini, Fo se stesso, i Gufi propongono il ‘cabaret totale’ in tutta la sua originalità come mistione di esistenzialismo francese, ballata dialettale, macchiettismo surrealista. In questa temperie prendono forma la c.-monologo di E. Jannacci e il teatro-c. di G. Gaber. I due cominciano insieme, ma mentre Jannacci si defila quasi subito, preferendo testimoniare una Milano povera ed emarginata, Gaber si dedica per alcuni anni a generi più consumistici, per ‘ritrovarsi’ poi grazie all’incontro con due intellettuali: U. Simonetta e S. Luporini. ‘Rocheté’, ‘zanza’, prostitute, disgraziati pieni di debiti popolano il mondo di Jannacci: di questi ‘pover christ’ egli esprime il disagio evitando toni tragici, in una comicità malinconica e fatalista. “Jannacci è una specie di fool shakespeariano, racconta cioè verità sul mondo e sulla vita attraverso la follia” (Jachia 1998). Per Gaber e Jannacci sono determinanti gli incontri, rispettivamente, con Strehler e con Fo. Nel teatro-c. di Gaber, infatti, la c. diventa elemento di sostegno di un teatro fatto di cose e pensieri, nel quale egli spesso indossa i panni dell’uomo di strada, del medio-borghese, vagliandone, impietoso, tutte le ‘libertà obbligatorie’.

Se Sartre, Ionesco, Brecht, Borges sono i punti di riferimento di Gaber, per il modenese F. Guccini sono i grandi classici, la letteratura americana, il western ad assumere questo ruolo. ‘Cantastorie’ come ama definirsi, predilige la parola, e il suo narrare intenso e ricercato spazia da Cino da Pistoia, Cecco Angiolieri, M. Twain e H. Melville, fino a incrociare le piccole cose, provinciali, familiari, con le grandi diatribe cosmiche: piccola città e West, il particolare e l’universale, dove la via Emilia è foto di famiglia, il West (l’America) l’esasperante incognita, che attrae e toglie il respiro.

Con 29 settembre (1967) L. Battisti inizia la sua intensa collaborazione con G. Ripetti (Mogol). Il segreto del loro successo consiste in una coincidenza perfetta, quanto fortuita, di luoghi, tempi, persone. Come compositore, Battisti ha congiunto il meglio delle melodie classiche, tradizionali, alla lezione americana, riuscendo ad avere un impatto profondo sull’inconscio collettivo e un effetto trascinante sul pubblico. C’è in questa coincidenza di messaggio e ascolto tutto il mestiere di Mogol, poeta, che si è servito finalmente della parola per significare se stesso, dopo anni di notevole lavoro per la canzonetta. Ne consegue drammatica, ma persino comica, insinuante, un’immagine del rapporto uomo-donna descritto con un linguaggio accessibile ma alto mediante un taglio visivo, cinematografico di eventi, tracolli, attese in cui si intersecano continuamente due piani di comunicazione: quello oggettivo, ambientale e quello intimo, dell’anima.

Gli anni Settanta

Gli anni Settanta sono segnati, anche per la c. d’autore, dalle vicende politiche e sociali del paese. A esse partecipano ora con attenzione del tutto nuova masse di giovani, rivendicando un ruolo da protagonisti nelle scelte, e al tempo stesso richiedendo spazi di espressione e confronto, desiderosi di eleggersi un mentore, un cantore attraverso il quale risentire l’eco delle proprie personali idee e da quello e queste lasciarsi emozionare e trascinare. L’industria stessa è ben disposta a investire, perché ravvisa nella c. d’autore un nuovo e ampio mercato, consono alla fame giovanile di identificazione e sogno. Questa c. parla appunto di futuro, libertà, fantasia, uomo nuovo, cerca risposte esistenziali alla solitudine e a tutte le paure. La confessione, lo sfogo solitario e un po’ elitario del decennio precedente divengono comunicazione prima generazionale, poi globale: la c. d’autore offre cioè quello in cui la gente vuole riconoscersi, facendosi pop nel senso più moderno. Via primaria di questa comunicazione diventano i concerti dal vivo, dove chi canta e chi ascolta si incontrano come persone vere, dalle idee vere. Altrettanto importante è la nascita delle emittenti libere, in Emilia, in Lombardia e poi in tutta la penisola. Per le stesse ragioni tramonta l’era del 45 giri, dell’episodio singolo: con l’affermazione del long playing la produzione discografica diventa compiutamente narrativa. In questo quadro, l’impianto della c. d’autore subisce notevoli variazioni: le parole corrono libere, s’inverte il rapporto con la melodia; il testo diventa protagonista perfino a scapito della metrica, per l’esigenza di esprimersi con maggiore chiarezza.

Notevoli sono gli apporti della West-coast californiana da Still, Crosby, Young e J. Browne e poi C. Stevens, C. King e soprattutto B. Dylan. Si scoprono gruppi come i Pink Floyd, le prime produzioni di B. Springsteen ed E. John, si accolgono sonorità arabe, celtiche, orientali, sudamericane. Da queste atmosfere muovono i primi passi A. Venditti, F. De Gregori e altri autori cresciuti attorno al Folkstudio, locale creato a Roma nel 1960, e come loro I. Fossati a Genova e L. Dalla a Bologna. In parte diversa è la parabola di E. Finardi e A. Camerini, legati al rock duro, alla protesta politica e generazionale, molto sentita a Milano, mentre una maggior attenzione musicale caratterizza le c. di C. Baglioni, A. Branduardi e R. Cocciante. F. Battiato, R. Zero e P. Conte costituiscono invece eccezioni difficilmente classificabili.

F. De Gregori è interprete attento del Novecento, riprende temi cari ai poeti maudits francesi, poi alle correnti futuriste e surrealiste. Manifesto di tale rivoluzione letteraria è Rimmel (1975), dove i generi musicali per esprimere l’azzardo e l’inafferrabilità dell’esistenza variano dalla filastrocca alla ballata, alla sinfonia, al soft-rock, mentre l’orizzonte temporale della narrazione risulta spesso indefinito. Le metafore di De Gregori sono assolutamente originali, giocate sull’accostamento di figure lontane e improvvise, e rappresentano il risultato finale di un progetto cominciato con Alice(1973) e Niente da capire (1974) e proseguito in Bufalo Bill (1976), senza distaccarsi dall’ascendente dylaniano e dall’esempio di L. Cohen. Pur avendo firmato insieme a De Gregori il primo album (Theorius Campus, 1972), A. Venditti costituisce l’altra faccia della c. d’autore romana in quegli anni. Quanto è chiuso, ermetico, quasi schivo nel raccontarsi il primo, tanto è sanguigno, aperto, chiassoso il secondo. In Ciao uomo (1972), Sora Rosa e Roma capoccia (ambedue in Theorius Campus, ma composte negli anni precedenti), la città è sofferenza e riscatto, sogno e speranza. Il grande successo popolare arriva con Lilly (1975) e da qui in poi Venditti attenua i toni d’esasperazione personale, aprendo alla grande melodia e semplificando l’impatto della sua comunicazione (Sotto il segno dei pesci, 1978; Buona domenica,1979), senza tuttavia cadere nel banale. La stessa preoccupazione caratterizza anche il lavoro di C. Baglioni dopo lo strepitoso successo di Questo piccolo grande amore (1972), c. che accorpa due elementi dimenticati o trascurati: il linguaggio proprio dell’adolescenza e l’elegia tenera, fragile del primo amore. La popolarità di Baglioni è cresciuta da allora di pari passo con una maggiore responsabilità dell’autore e con l’apertura a temi più vasti e profondi come Dio, l’amicizia, la fede, la morte, sempre parlando per tutti e di tutti, in un tessuto musicale alato. Negli album successivi, come Sabato pomeriggio (1975), Solo (1976), E tu come stai (1978), continua a specchiarsi nelle malinconie e nelle piccole attese dei giovani, della gente, facendole sue. R. Cocciante, nato a Saigon, esordisce come cantante di rhythm and blues. In Mu, primo album del 1972, questa tendenza al canto-graffio, al canto-morso del black americano è ancora evidente, come subito evidente è la sua tendenza a lasciar correre le note, a strutturare i motivi, più che star dietro ai testi. L’evocazione del tempo perduto, del tempo in cui si è perduto, lo conduce agli indimenticabili episodi di Bella senz’anima (1974) e Margherita (1975), per poi privilegiare toni più sommessi e romantici.

Diverso approccio con la realtà, le cose, i sentimenti ha invece R. Gaetano, scomparso prematuramente: ironico, stravagante e sottile, scherza e ribalta i luoghi comuni e il senso lampante, scontato degli eventi, aprendo la strada a molti epigoni. R. Vecchioni, milanese, professore di lettere, ha un orizzonte decisamente più autobiografico e pone inoltre il mito al centro del suo universo poetico. In chiave malinconica, nostalgica, evocativa insegue a lungo un se stesso sdoppiato in un rapporto odio/amore con un personaggio femminile, segnato nella vita reale da sofferenze e addii. Negli anni Ottanta la sua propensione al ‘lamento sinfonico’ si attenua, scoprendo in chiave rock l’entusiasmo per la vita, corrispettivo del nuovo rapporto sereno e maturo con l’amore.

La personalità artistica di L. Dalla è decisamente composita, talvolta sfuggente, imprevedibile, e tuttavia mostra notevoli tratti di continuità. Dopo gli esordi negli anni Sessanta, in larga parte ignorati dal pubblico, nel 1971 raggiunge il successo cantando a Sanremo 4.3.1943, su un bellissimo testo di P. Pallottino. Grazie al rapporto con grandi poeti-parolieri come S. Bardotti, G. Baldazzi, R. Roversi, Dalla matura negli anni successivi una più completa competenza letteraria, fino alle c. di Com’è profondo il mare (1977), nelle quali riesce a esprimere l’uomo, confuso, parossistico, intriso di umori umani e aneliti ideali, solo a far la conta dei suoi complessi e delle sue ansie. Dopo un disco e una tournée con De Gregori (Banana Republic, 1979), fissa per sempre la sua icona in quel viso cerchiato da occhialini tondi e in quel passamontagna a zuccotto (emblematica la copertina di Dalla, 1980). Dalla è un autodidatta della parola; in lui il termine è essenziale, visivo, plastico, laddove De Gregori fa della parola un culto, un filo ideale per collegare immagini, accorpare simboli; ma l’esperire in termini più completi le possibilità evocative della parola è sicuramente impegno specifico di I. Fossati e F. Battiato.

Trasfigurate le origini rock e soul, accantonato il primo vero successo dopo Jesael (presentata a Sanremo nel 1972), Fossati, genovese, intraprende un percorso di ostinata, solitaria scansione del termine perfetto per esprimere le fatalità della vita, l’angoscia e l’attrazione del mare, il disfacimento del tempo, le occasioni perdute dell’amore. L’ansia d’inseguire il suono che possa cogliere lo spirito è ancor più evidente in F. Battiato; già agli esordi minimizza facili tematiche sentimentali e poco si cura di contingenze politiche; il suo è all’origine, un viaggio nella forma, nell’espressione, una ricerca spasmodica dell’acuto, della dissonanza che traduca l’eterno, l’inconoscibile. A partire daL’era del cinghiale bianco (1979) e Patriots (1980) la dimensione sperimentale si attenua, e nella Voce del padrone(1981) emerge un artista battagliero, ironico, invadente, nemico di tutte le convenzioni, capace di accostare immagini apparentemente slegate una dall’altra ma intimamente connesse nel disegno di fondo: la prevalenza dell’Oriente come cuore, sull’Occidente come cervello. Se l’universo di Battiato è un filo teso al sublime, diametralmente opposto, terreno, carnale, risposta affettiva a un’umanità grande nell’errore è il mondo di R. Zero. R. Fiacchini, in arte Zero, ha avuto una gioventù difficile di borgata, carica di incontri balordi, ambiguità affettive, espedienti per sopravvivere. La trasgressione diventa presto una regola per differenziarsi e identificarsi, e Zero artista, fin dagli esordi, offre di sé un’immagine multipla e ambigua. Propone uno spettacolo esibizionistico, volutamente kitsch, offrendo possibilità d’identificazione ad adolescenti e gente comune (i ‘sorcini’) oppressa dagli schemi di potere; in tutto ciò, sa comunicare come nessuno lo sconcerto per ogni violenza, la difesa dei deboli e una solidarietà umana universale.

L’onda lunga del ’68 è presente più che altrove nell’area milanese, dove si concentrano molte iniziative di massa e giovanili. Qui si muove il rock libertario e sognante di E. Finardi, che comunica in Sedicesimi frenetici il rispetto per l’indipendenza altrui e l’amore come patrimonio comune; alcune sue c. come La radio (1976) o Extraterrestre (1978) diventano delle bandiere. Dalla stessa temperie è emerso A. Camerini, artista eclettico che usa il rock come favola e ricerca intellettuale, intrecciando la sua passione per il teatro dell’arte con la musica rinascimentale. Di altra impostazione le c. di P. Bertoli, di Sassuolo, spesso tese alla denuncia delle ingiustizie sociali (A muso duro, 1979) e fortemente vincolate alla realtà. Il bolognese C. Lolli, insegnante di lettere, amico di Guccini, è rimasto coerente alla propria ispirazione, senza concessioni: in Aspettando Godot (1972) e Ho visto anche zingari felici (1976) esprime un’attesa intensa e intellettuale di eguaglianza, un amore tenero per incomprensione e sconfitte, un odio selvaggio per qualunquismi, perbenismi e istituzioni di qualsiasi genere. Tematiche affini accomunano a Milano G. Manfredi, scrittore e poeta e Riki Gianco, fuoriuscito dal Clan di Celentano.

Negli anni Settanta si verifica anche una netta svolta della musica napoletana. Produzione popolare, vera, è quella della Nuova compagnia di canto popolare, di Napoli centrale, di Eugenio Bennato, E. Avitabile, e altri ancora. È tuttavia soprattutto il rock di Edoardo Bennato a incarnare Napoli, a tracciarne la rimonta e la rivalsa. Da Non farti cadere le braccia (1973) fino a Sono solo canzonette (1980) attraverso il mitico Burattino senza fili (1977) la sua produzione è densa di allegorie forti e immediate volte a denunciare e accusare. La sua pronuncia strisciante rende più velenose, più pungenti le parole, ma è soprattutto la particolare vocalità, acuta e stridente, a favorirne l’immediata popolarità. A. Branduardi, lombardo e definito agli esordi ‘il menestrello’, costituisce rispetto a Edoardo Bennato un polo diverso, musicalmente e geograficamente. Subito popolare grazie a una filastrocca ebraica (La fiera dell’est, 1976), Branduardi è compositore elitario, estetizzante, ricercato. Raffinatissimo nell’impiego degli strumenti, gran cultore della musica storica, vive la sua arte come gioia e inventiva.

Sempre negli anni Settanta si colloca il debutto dell’avvocato astigiano P. Conte. Molte caratteristiche ne fanno tuttavia una personalità artistica anomala e difficilmente riconducibile a un’epoca definita: l’età dell’esordio, il mondo provinciale in cui è inserito, il démodé, l’indifferenza al rock, alle mode, alle problematiche sociali, la scelta peculiare dei circuiti. Anche i luoghi delle sue c. non sono reali, ma topoi ideali, ipostatici, dove si muovono visioni soggettive, colte dalla sua provincia, dalla città, dagli orizzonti esotici. “Siamo in un realismo magico dove attraverso un’immagine apparentemente reale si descrive in effetti una dimensione ulteriore, un posto mitico, che è inconsciamente in noi” (Jachia 1998). Conte, con Guccini, Vecchioni, Branduardi e molti altri è anima dell’annuale Rassegna Tenco, fondata nel1971 a Sanremo da A. Rambaldi. Nata come contraltare allo stereotipato Festival sanremese, la Rassegna si propone di far incontrare le voci nuove della poesia in musica, saggiare le tematiche emergenti, discutere presente e futuro della c. d’autore. Al semplice disegno iniziale si sono aggiunti nel tempo incontri con intellettuali e ricercatori impegnati in altre attività artistiche, in un’atmosfera molto informale, nonché gli inviti come ospiti d’onore a grandi cantautori stranieri, spesso sconosciuti al grande pubblico, e premi simbolici alla carriera e ai ‘dischi dell’anno’.

Gli anni Ottanta

Il soggettivismo che caratterizza gli anni Ottanta è già preannunciato in L’anno che verrà di L. Dalla (1979). Cadono già alla fine del decennio precedente alcune certezze e speranze, lasciando spazio a un rinnovato consumismo e a un sempre più marcato disimpegno sociale e politico. Sul piano musicale si verifica un avvicinamento di tendenze, dal momento che gli autori ‘storici’, da un lato, intraprendono nuove strade espressive, accentuando le dimensioni ritmiche e sintetizzando la parte letteraria, mentre i ‘nuovi’ rendono più melodiche le sonorità rock.

La ricerca di Guccini oscilla ancora fra l’universale e il particolare: in Signora Bovary (1987) è ancora la provincia che guarda il mondo, con la dolorosa sufficienza del saggio distaccato; la delusione si esorcizza in facezia ironica, in sarcasmo di gran vaglia, soprattutto nella valutazione delle vicende personali. Stabile è anche il percorso di F. Battiato:Orizzonti perduti (1983) e Fisiognomica (1988) rappresentano l’inseguimento di una legge comune, di un Essere a cui ricondurre il senso dell’azione. Tutta la sua opera, d’altronde, è segnata dalla ricerca di purificazione e perfezione. I. Fossati esce finalmente allo scoperto con Ventilazione (1984) e La pianta del the (1988), mentre P. Conte raggiunge notorietà internazionale e ottiene una sorta di consacrazione come ‘classico’, affermandosi all’Olympia di Parigi e al Metropolitan di New York. Conte è probabilmente l’autore meno italiano, meno radicato, più cosmopolita; le sue parabole magiche sono per tutte le lingue e latitudini e l’utilizzo estemporaneo di ritmi assai vari (rumba, habanera, milonga) lo rende unico.

Altri cantautori affrontano nel proprio percorso creativo mutamenti più marcati. Finardi si ritrova cantore dolce e delicato dell’amore, dell’amicizia, Bennato si smarrisce sugli specchi di rabbie ormai consumate e De André si ritrae nel genovese antico di Creuza de mä (1984), per poi osservare in Le nuvole (1990) l’inconsistente vacuità delle azioni umane. Diverse le reazioni di fronte ai successi commerciali: l’inaspettata fortuna della Donna cannone (1983) spinge F. De Gregori a ripiegare in diari musicali non facili (Terra di nessuno, 1987; Miramare 19-4-89, 1989); combattendo l’antinomia tra un passato d’impegno duro e un presente di apparente disimpegno, Venditti opta con consapevolezza per una scelta di pubblico, senza perdere di vista la sua dignità d’autore. L. Dalla passa dalla straziante Caruso (1986) al tour con G. Morandi del 1988 e infine a Cambio (1990), dal titolo sintomatico, album che contiene Attenti al luporeggae di grande successo scritto da Ron. Negli anni Ottanta Baglioni è artista ormai maturo, riflessivo. Nelle sue c. rimane importante la melodia mentre declina il ritornello, si cimenta inoltre in schemi alternativi e soprattutto ritocca il linguaggio, assai più velato che nel passato. Infaticabile nelle tournées, incide un album da solo (Assolo, 1986), summa dei suoi successi, reinterpretati e irriconoscibili rispetto alle prime incisioni. Scelte positive e di rilievo caratterizzano anche le evoluzioni di Cocciante, soprattutto grazie all’incontro nel 1981 con Mogol. Cocciante sceglie la favola e la tenerezza, approdando aSincerità (1983) e al duetto con Mina di Questione di feeling (1985).

V. Rossi rappresenta la vera novità nella c. d’autore degli anni Ottanta. La sua apparizione è in controtendenza rispetto all’indifferenza, all’assenza di motivazioni e all’appiattimento che caratterizzano l’ascolto negli anni precedenti. Nato a Zocca (Modena), intrattenitore di Punto radio, una delle prime emittenti libere, V. Rossi non ha messaggi universali, non propone modelli, né corretti tessuti letterari, non esprime neppure storie compiute: è semplicemente il dissenso, una sorta di coscienza primordiale. Sceglie il rock come unico criterio estetico e propone nella musica come nella realtà biografica un’esistenza di corsa, consapevole, dionisiaca (Vado al massimo, 1982; Vita spericolata, 1983). Verso V. Rossi, come verso R. Zero, si è verificata un’identificazione non di massa, ma dei singoli: al languore, alla sommessa dolcezza di Zero, V. Rossi risponde con una rudezza repressa e dolorosa. Quando nel 1989 pubblica Liberi liberi, chiamandosi fuori dalle tempeste del passato, la sua storia e il suo personaggio divengono simbolo di un percorso umano di distruzione e riscatto e sempre più oggetto d’imitazione.

L’influenza di prodotti stranieri, la globalizzazione musicale, l’apertura allo spettacolo dal vivo portano la c. d’autore a un’inevitabile fase di concessione popolare. Ci si propone sempre più spesso di rispondere alle istanze giovanili senza corrompere né disattendere le richieste, alzando il livello della preparazione e del professionismo. Prevalgono i contenuti minimalisti: la pressante alienazione della città, lo scetticismo su grandi verità e temi salvifici, l’ampio spazio concesso a elegie dell’amor quotidiano, afflati liberatori e pacifisti più oleografici che reali. In campo musicale si verifica una rincorsa generale a suoni virtuali e computerizzati, o ad apporti solistici d’effetto: si affaccia la tendenza a proporre arrangiamenti che spesso prevaricano il motivo e il messaggio.

La corrente più rilevante della c. d’autore è proseguita con Zucchero (Adelmo Fornaciari) e P. Daniele. Nella loro arte assume priorità la vocalità stessa, tanto da confinare testo e musica in secondo piano, nell’intento di toccare corde profonde nell’ascoltatore grazie proprio all’emissione, ricca di sfumature espressive e spesso fuori dal registro usuale. Zucchero è partito dal rhythm and blues afroamericano, facendone una propria personale rilettura. Daniele ha raccolto invece l’eredità più intima e sofferta della tradizione mediterranea, sposandola col blues, con il soul jazz, fino agli incontri storici con Chick Corea e Pat Metheny. Diverse anche le scelte letterarie: Zucchero affronta temi mitteleuropei, urbani, favole reali dense di calembours e soluzioni gergali; Daniele preferisce l’antirazzismo, il naturalismo pittorico dell’ultima Napoli, lo stupore naïf per ogni amore nuovo. Anche per G. Nannini, cantante senese di chiara ispirazione rock, la voce è l’elemento espressivo fondamentale. La sua continua evoluzione la porta ai grandi successi popolari diFotoromanza (1984), Bello e impossibile (1986), I maschi (1987) e alla consacrazione in Europa. E. Ruggeri, milanese, inizia a cantare in un gruppo di rottura, i Decibel. Colto, legato per immagini e affinità elettive ai cantautori storici, cerca tuttavia presto nuove vie, proponendo storie urbane, flussi e riflussi del sentimento, paesaggi scettici e autunnali,nonsenses azzardati, cogliendo molti spunti dal panorama internazionale, da T. Waits a D. Bowie, e altri. L’attaccamento al quotidiano, ai piccoli incidenti di percorso, al numinoso che lascia attoniti come bambini sono caratteristiche di Ron (Rosalino Cellamare), amico e braccio destro di Dalla, capace di esprimersi, sulle ali della West-coast californiana, a livelli personalissimi di freschezza e dolcezza compositiva. Suoi sono grandi successi come Piazza Grande (1972),Attenti al lupo (1990), Vorrei incontrarti fra cent’anni (vincitrice del Festival di Sanremo nel 1996).

Gli anni Novanta

Verso la fine degli anni Ottanta si assiste alla radicalizzazione delle tematiche minimali e quotidiane in un quadro di crescente dominio dell’occhio, dell’immagine. Tale tendenza prosegue, con fasi alterne, per tutti gli anni Novanta. Sempre più marginali divengono in questi anni i temi di rilievo politico e sociale, mentre l’interesse si concentra prevalentemente sulla persona; l’orizzonte temporale rimane limitato e i sentimenti narrati non comportano vera compromissione personale. Il crollo del muro di Berlino, Tangentopoli, la fine del comunismo: molti temi anche appassionanti si avvicendano proponendo poche verità universali, in un serpeggiante scetticismo. Rimangono presenti alcune grandi figure (Gandhi, Madre Teresa di Calcutta, Che Guevara ecc.), come garanzia ideale più che come modelli di comportamento. All’impoverimento dei contenuti corrisponde un ampliamento e arricchimento delle forme musicali, nonché delle sfumature esecutive ed espressive: si cerca così di incontrare gusto e linguaggi del pubblico giovanile rispettando la preferenza per il particolare e il temporaneo rispetto a contenuti di più vasto respiro. I media assumono rilevanza, riproponendo da un lato l’immagine del cantautore storico, eroico e misterioso, e dall’altro quella dell’artista nuovo, iniziatico e visionario: il primo come maître à penser interpellato sui temi più vari; il secondo consacrato dal consenso giovanile, nella parte dell’eroe rassicurante ed esemplare. Si impone l’artista-immagine, destinato a ‘forare il video’ rendendo l’emozione credibile, a essere alla portata di tutti come personaggio ‘vero’ e a sostituire la trasgressione con la riappropriazione di sé. Spesso veri uomini di spettacolo, attori consumati, questi autori sanno esprimere il proprio pensiero con molti altri mezzi oltre alla c., attraverso libri, dépliants, spot, speciali televisivi, saggi, articoli, fumetti.

La portata e la continuità del successo non sono uguali per tutti i cantautori, ma variano naturalmente secondo le caratteristiche culturali del pubblico: si assiste così all’affermazione improvvisa di un gruppo come gli Articolo 31, che propone un rap comprensibile a molti seppur sottile, mentre un’accoglienza più ristretta e in precise aree culturali viene riservata alla rabbia postmoderna dei 99 Posse e all’intensità primordiale degli Almamegretta. Denominatore comune è la ricerca del nuovo, del sorprendente, di immagini plastiche e provocanti che riescano a vincere l’indifferenza. Così gruppi come Elio e le storie tese o i Pitura freska giocano con irriverenza e cinismo, stravolgendo il mito grazie alnonsense. Nuova è anche la comparsa di gruppi al posto del cantautore singolo, sebbene esista quasi sempre un leader che ne riassume i caratteri distintivi storicamente riconoscibili. Gli autori già affermati si riappropriano progressivamente del presente, rileggendo il privato senza l’ansia di stabilire un proprio ruolo. Molti testimoniano una fase di transizione parlando degli ‘altri’: la donna, l’amico, il nemico, Dio, mantenendo tuttavia il proprio bagaglio culturale, con citazioni e allusioni generazionali, e rivolgendosi così a un pubblico più vicino alla loro formazione. Pochi ripetono la linea formale cui erano avvezzi: denominatore comune è aprirsi il più possibile all’evento popolare, come è accaduto a Dalla con Cambio e in parte a Venditti con Ci vorrebbe un amico. Tra gli altri, F. De Gregori imbocca la strada del folk-song (Il bandito e il campione, 1995) e dell’invettiva soft-rap (L’agnello di Dio, 1996), seguita da una riproposizione dei suoi moduli storici (La valigia dell’attore, 1997). Dalla sceglie il puro motivo all’italiana (Canzone di Samuele Bersani); P. Daniele approda al canto d’amore, dopo l’impegno di Non calpestare i fiori nel deserto (1995) eDimmi cosa succede sulla terra (1997); Venditti prosegue la sua ricerca di idee comuni, nel linguaggio di tutti (In questo mondo di ladri, 1988); Vecchioni si cimenta in trasformismi provocatori (Voglio una donnaIl tuo culo e il tuo cuore), confermando tuttavia la propria ispirazione originaria con c. intense e canoniche (Euridice e La stazione di Zima). Fossati, Battiato, Guccini proiettano nel futuro il proprio passato d’impegno. In DiscantoLindberghCarte da decifrareFossati ricerca ancora il valore ultimo che caratterizza l’uomo; Macramè (1996), termine di origine araba per “tessitura”, è invece intreccio orizzontale e verticale, segno di nodi non sempre visibili nella storia umana. Straordinario coinvolgimento emotivo esprime Battiato in Povera patria (1991), che prelude al suo sodalizio col filosofo M. Sgalambro. Questa collaborazione porterà l’apertura dotta e speculativa di L’ombrello e la macchina da cucire (1995), e quella ardita e di ispirazione rock del successivo album L’imboscata (1996). Premio Montale nel 1992, dopo Parnassius Guccini (1993), F. Guccini, romanziere, scrittore part-time, torna con D’amoredi morte e altre sciocchezze (1996) a umori più simili a La locomotiva; R. Zero trova difficoltà con i media, poi riprende a cantarsi come sempre in L’imperfetto(1995). Dopo il grande successo di Gli spari sopra (1993), V. Rossi torna a temi privati e dolorosi con Io no (1998); Zucchero valica i confini tradizionali del proprio pubblico e della c. d’autore grazie ai duetti con Pavarotti, fino all’uscita dell’album Spirito DiVino (1995) con l’immediata Per colpa di chi. C. Baglioni riesce a sperimentare e a proporre sperimentazioni: l’uscita di Io sono qui (1995) segna un repentino mutamento di linguaggio, fattosi più ermetico e privato, con andamento cinematografico e una componente di sfida anticonformista. Tra i napoletani si ripropone T. De Sio, sempre in prima linea nelle manifestazioni progressiste, con la sua voce ‘mediterranea’, caratterizzata etnicamente (Ombre rosse, 1991; La mappa del nuovo mondo, 1993). Con F. Mannoia, G. Nannini, L. Bertè, M. Martini e O. Vanoni, T. De Sio è una delle poche cantautrici italiane. L’immagine del cantautore è infatti storicamente maschile; sono d’ostacolo la difficoltà a trovare credito in una cultura prevalentemente maschile, nonché determinate scelte dell’industria discografica.

Dalla figura tradizionale del cantautore ‘solo e pensoso’, già proiettati verso il futuro, si distinguono S. Bersani, scoperto da Dalla (sua è Canzone, contenuta nell’album Canzoni, 1996), N. Fabi, che sa trarre belle c. da pretesti volutamente banali, e, originalissima eccezione femmile, C. Consoli. Il 1992 è l’anno del tour-evento di L. Carboni e Jovanotti (L. Cherubini). Malgrado le origini assai diverse, l’incontro dei loro percorsi costituisce per ambedue occasione di svolta. Ombroso, delicato, Carboni arriva al successo nel 1987 (Luca Carboni); con Canzoni e confusioni (1992) e con Mondo(1995) compie un passo in avanti, riportando alla coscienza le contraddizioni del mondo giovanile bolognese dal quale proviene. La parabola di Jovanotti è anche più complessa. Tra Jovanotti for president (1988) e L’albero (1997) il giovane disc jockey disimpegnato degli esordi si trasforma in opinion-leader credibile, maturando comportamenti e coscienza ideologica e artistica che gli consentono attraverso il rap di contestare efficacemente ipocrisie, falsità, ingiustizie e di celebrare la comune tendenza alla felicità collettiva. Jovanotti non cerca risposte trasgressive, violente: sfondo del suo pensiero è la positività palpabile della vita, a portata di tutti. Ciò ne fa un testimone credibile del suo tempo, capace di indicare strade alla sua generazione superando la tentazione comune a molti di limitarsi a temi autobiografici e rinunciatari. Disperazione e rabbia caratterizzano, per es., le c. di M. Masini, spesso anch’esse a sfondo autobiografico, mentre in quelle di F. Baccini gli stessi temi sono trattati con spirito ludico e sereno. L. Ligabue, di Sassuolo, parla anch’egli spesso di sé, ma con una complessità e completezza artistica che fanno della sua opera un crocevia di molte tensioni artistiche degli anni Novanta. D’origine contadina, ha scelto la strada del rock, ma da Guccini, Bertoli, Lolli ha recepito la lezione della parola, traducendola in termini personali già in Luciano Ligabue (1990). Dotato di notevole presenza scenica e di un’accattivante e grintosa tensione nella voce, Ligabue propone tranches di vita quotidiana, in espressioni spezzate, disarticolate, mentre, a differenza di altri artisti di ispirazione rock, mantiene un costante primato del sentimento, del giudizio del cuore. Si devono ricordare Su e giù dal palco (1997) e Certe notti, contenuta nell’albumBuon compleanno Elvis (1995).BIBLIOGRAFIA

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