III – Dell’individualità come elemento

Abbiamo stabilito le ragioni che rendono imperativo che gli uomini siano liberi di formarsi le loro opinioni e di esprimerle senza riserve; e stabilito anche quali sono le sventurate conseguenze per la natura intellettuale dell’uomo, e attraverso di essa per quella morale, se questa libertà non viene concessa o affermata nonostante i divieti. Consideriamo ora se le stesse ragioni non richiedono che gli uomini siano liberi di agire secondo le proprie opinioni – di applicarle nella loro vita senza essere ostacolati, fisicamente o moralmente, dai loro simili, purché lo facciano a loro esclusivo rischio e pericolo. Quest’ultima condizione è ovviamente indispensabile. Nessuno pretende che le azioni debbano essere libere quanto le opinioni. Al contrario, anche le opinioni perdono la loro immunità quando le circostanze in cui vengono espresse sono tali da rendere tale espressione un’istigazione esplicita a un atto delittuoso. L’opinione che i mercanti di grano sono degli affamatori dei poveri, o che la proprietà privata è un furto, non dovrebbe essere molestata se viene semplicemente diffusa per mezzo della stampa, ma può incorrere in una giusta punizione se viene proferita di fronte a una folla eccitata riunitasi davanti alla casa di un mercante di grano, o viene esibita tra la stessa folla sotto forma di cartello. Gli atti di qualunque tipo che senza causa giustificata danneggino altri possono essere controllati, e nei casi più importanti devono assolutamente esserlo, dai sentimenti a essi sfavorevoli, e, quando sia necessario, dall’intervento attivo degli uomini. La libertà dell’individuo deve avere questo limite: l’individuo non deve creare fastidi agli altri. Ma se evita di molestare gli altri nelle loro attività, e si limita a agire secondo le proprie inclinazioni e il proprio giudizio nell’ambito che lo riguarda, le stesse ragioni che dimostrano che l’opinione deve essere libera provano anche che gli si deve consentire, senza molestarlo, di mettere in pratica le proprie opinioni a proprie spese. Gli uomini non sono infallibili; le loro verità sono per la maggior parte delle mezze verità; l’unanimità, a meno che non sia il risultato del più completo e libero confronto di opinioni opposte, non è auspicabile, e la diversità non sarà un male ma un bene fino a quando gli uomini non saranno molto più capaci di riconoscere tutti gli aspetti della verità: questi principi sono applicabili alle azioni altrettanto che alle opinioni. Come è utile che fino a quando l’umanità non sarà perfetta vi siano differenze d’opinione, così lo è che vi siano differenti esperimenti di vita; che le diverse personalità siano lasciate libere di esprimersi, purché gli altri non ne vengano danneggiati; e che la validità di modi di vivere diversi sia verificata nella pratica quando lo si voglia. In breve, è auspicabile che l’individualità sia libera di affermarsi nella sfera che non riguarda direttamente gli altri. Quando la norma di condotta non è il carattere individuale ma le tradizioni o le consuetudini degli altri, viene a mancare uno dei principali elementi della felicità umana, e l’elemento sicuramente principale del progresso individuale e sociale. La difficoltà maggiore che si incontra nell’affermazione di questo principio non risiede nella determinazione dei mezzi necessari per raggiungere un fine riconosciuto, ma nell’indifferenza generale nei confronti del fine stesso. Se la gente si rendesse conto che il libero sviluppo dell’individualità è uno degli elementi fondamentali del bene comune; che non solo è connesso a tutto ciò che viene designato da termini come civiltà, istruzione, educazione, cultura, ma è di per se stesso parte e condizione necessaria di tutte queste cose, non vi sarebbe il pericolo che la libertà venisse sottovalutata, e la definizione dei confini tra essa e il controllo sociale non presenterebbe enormi difficoltà. Ma il male è che comunemente il valore intrinseco della spontaneità individuale – il fatto che è di per se stessa degna di considerazione – è a malapena riconosciuto. I più, soddisfatti della vita così come è (perché sono loro a renderla così come è) non riescono a capire perché non debba andar bene a tutti; e, ciò che più conta, la spontaneità non fa parte dell’ideale della maggioranza dei riformatori morali e sociali, ed è anzi guardata con sospetto, come un ostacolo fastidioso e forse ribelle all’accettazione generale di ciò che essi giudicano più opportuno per l’umanità. Poche persone al di fuori della Germania riescono a comprendere il significato della dottrina a cui Wilhelm von Humboldt, studioso e uomo politico così eminente, dedicò un trattato – che “il fine dell’uomo, o ciò che è prescritto dai dettati eterni o immutabili della ragione, non suggerito da desideri vaghi e passeggeri, è il più elevato e armonioso sviluppo dei suoi poteri in un’unità completa e coerente”; che quindi, lo scopo “a cui ciascun essere umano deve costantemente tendere i suoi sforzi, e su cui debbono sempre concentrarsi coloro che cercano di esercitare un influsso sui propri simili, è l’individualità del potere e dello sviluppo”; che ciò richiede due elementi, “la libertà, e la varietà delle situazioni”; e che dalla loro unione nascono “il vigore individuale e la molteplice diversità”, che si combinano nella “àoriginalit “. Tuttavia, per quanto poco gli uomini siano abituati a dottrine come quella di von Humboldt, e per quanto possano sorprendersi del valore che attribuisce all’individualità, la questione può soltanto essere questione di grado: nessuno pensa che la migliore condotta possibile sia di non fare assolutamente altro che copiarsi a vicenda. Nessuno affermerebbe che gli uomini non dovrebbero esprimere in alcuna misura il proprio giudizio o il proprio carattere individuale nel loro modo di vivere e nella condotta dei loro affari. D’altra parte, sarebbe assurdo pretendere che gli uomini debbano vivere come se prima che venissero al mondo tutto fosse stato completamente ignoto; come se l’esperienza non avesse ancora indicato in una certa misura che un dato modo di vivere o di comportarsi è preferibile a un altro. Nessuno nega che da giovani gli uomini debbano essere educati e addestrati a conoscere i risultati accertati dall’esperienza umana e a trarne vantaggio. Ma è privilegio, e giusta condizione, dell’uomo, una volta giunto alla pienezza delle sue facoltà, usare e interpretare l’esperienza a modo suo. Tocca a lui determinare in quale misura l’esperienza già acquisita sia opportunamente applicabile alle proprie circostanze e al proprio carattere. Le tradizioni e i costumi di altri uomini mostrano, in una certa misura, ciò che la loro esperienza ha loro insegnato: sono prove indiziarie, e in quanto tali vanno rispettate. Ma, innanzitutto, la loro esperienza può essere troppo limitata, o possono non averla interpretata correttamente. In secondo luogo, la loro interpretazione può essere corretta ma non adattarsi alle esigenze di un dato individuo. In terzo luogo, anche se queste consuetudini sono sia positive in quanto tali sia adatte al caso particolare, tuttavia il conformarsi semplicemente alla consuetudine in quanto tale non educa o sviluppa nell’individuo le qualità che sono patrimonio caratteristico di un essere umano. Facoltà umane quali la percezione, il giudizio, il discernimento, l’attività mentale, e persino la preferenza morale, si esercitano soltanto nelle scelte. Chi fa qualcosa perché è l’usanza non opera una scelta, né impara a discernere o a desiderare ciò che è meglio. I poteri mentali e morali, come quelli muscolari, si sviluppano soltanto con l’uso. Facendo qualcosa soltanto perché gli altri la fanno non si esercitano queste facoltà, non più che credendo a qualcosa solo perché altri ci credono. Se i fondamenti su cui si basa un’opinione non convincono completamente la ragione individuale, quest’ultima non può essere rafforzata e anzi spesso viene indebolita dalla sua adozione. Analogamente se le motivazioni di un atto non sono consone ai sentimenti e al carattere di un individuo (in casi che non coinvolgano gli affetti, o i diritti altrui), compierlo contribuirà a renderli inerti e torpidi invece che attivi e energici. Chi permette al mondo, o alla parte di esso in cui egli vive, di scegliergli la vita non ha bisogno di altre facoltà che di quella dell’imitazione scimmiesca. Che si sceglie la vita esercita tutte le sue facoltà. Deve usare l’osservazione per vedere, il ragionamento e il giudizio per prevedere, l’attività per raccogliere gli elementi decisionali, il discernimento per decidere, e, una volta presa deliberatamente la decisione, la fermezza e il controllo di sé per attenervisi. E queste qualità gli servono, e le esercita, esattamente nella misura in cui determina la propria condotta secondo il proprio giudizio e i propri sentimenti. Può accadere che finisca su una buona strada, e non gli accada nulla di male, senza che faccia nulla di tutto ciò. Ma quale sarà il suo valore relativo in quanto essere umano? Non sono soltanto le azioni degli uomini a essere realmente importanti, ma anche i generi di uomini che le compiono. Tra le opere umane che la vita giustamente si sforza di perfezionare e rendere più belle, la prima in ordine d’importanza è sicuramente l’uomo stesso. Supponendo che fosse possibile fare costruire le case, coltivare il grano, combattere le battaglie, dibattere le cause, e persino erigere le chiese e recitare le preghiere, da macchine – da automi di apparenza umana –, si perderebbe molto sostituendole agli uomini e alle donne che vivono oggi nelle regioni più civilizzate del mondo e che pure sono certamente soltanto poveri esempi di ciò che la natura può produrre e produrrà in futuro. La natura umana non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di crescere e svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una creatura vivente. Probabilmente tutti ammetteranno che è auspicabile che gli uomini esercitino il loro intelletto, e che adeguarsi con intelligenza alle usanze, e persino talvolta discostarsene intelligentemente, è meglio che aderirvi ciecamente e meccanicamente. In una certa misura si ammette che il nostro intelletto spetta a noi; ma non vi è la medesima disposizione a ammettere che anche i nostri desideri e impulsi sono di nostra competenza, o che avere impulsi propri, forti o deboli che siano, possa costituire altro che un pericolo e una tentazione. E tuttavia desideri e impulsi sono parte di un perfetto essere umano altrettanto quanto le sue convinzioni e le restrizioni cui è sottoposto; e gli impulsi vigorosi sono pericolosi solo in una situazione di squilibrio, quando un gruppo di intenzioni e tendenze si sviluppa e si rafforza mentre altre, che dovrebbero essere altrettanto presenti, restano deboli e inattive. Non è perché i loro desideri sono vigorosi che gli uomini agiscono male; è perché le loro coscienze sono deboli. Non vi è una connessione naturale tra vigore di impulsi e debolezza di coscienza: la connessione naturale è l’inversa. Affermare che i desideri e i sentimenti di un indviduo sono più forti e variati di quelli di un altro significa semplicemente che ha una maggiore disponibilità di materie prime della natura umana, e quindi è capace, forse di maggiore male, ma certamente di maggior bene. I forti impulsi non sono che un altro nome dell’energia. L’energia può essere impiegata a fini cattivi; ma da una natura energica può venire maggior bene che da una indolente e apatica. Gli uomini più naturalmente dotati di sentimenti sono sempre quelli i cui sentimenti, se coltivati, possono diventare i più forti. Le stesse profonde sensibilità che rendono vividi e poderosi gli impulsi personali sono anche la fonte da cui originano il più appassionato amore per la virtù e il più severo autocontrollo. […]

John Stuart Mill – 1859 – Saggio sulla libertà – estratto

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