Volontà di possesso e reificazione del rapporto d’amore. Ma la volontà di possesso riflette il tempo come angoscia di perdere, senso dell’irricuperabile. Ciò che è, è avvertito in relazione al suo possibile non essere: e solo così viene trasformato in possesso e ridotto a qualcosa di rigido e di funzionale, suscettibile di essere scambiato con un possesso equivalente. Trasformata interamente in possesso, la persona amata non si guarda neppure più. L’astrattezza nell’amore è il complemento dell’esclusività, che si spaccia per il contrario, per l’attaccamento ad un essere determinato. Questo attaccamento si lascia sfuggire il proprio oggetto proprio in quanto lo trasforma in oggetto, e manca la persona che degrada a “mia”. Se gli uomini non fossero più un possesso, non potrebbero più essere scambiati. Vera inclinazione sarebbe quella che si dirige specificamente verso l’altro, e si rivolge a tratti precisi ed amati, e non all’idolo della personalità, pura riflessione del possesso. Lo specifico non è esclusivo, in quanto gli manca la tendenza alla totalità. Ma è esclusivo in un altro senso: in quanto, pur senza vietarla, rende impossibile – in forza del suo stesso concetto – la sostituzione dell’esperienza indissolubilmente riferita ad esso. Il totalmente determinato ha la sua garanzia nel non poter essere ripetuto, e appunto per questo tollera l’altro accanto a se. Il rapporto di possesso, il diritto esclusivo di priorità, ha come complemento la saggezza che si esprime in formule come questa: mio Dio, sono pur tutti uomini, e l’uno o l’altro fa poi lo stesso. Un’inclinazione che non sapesse nulla di questa saggezza non avrebbe più da temere l’infedeltà, poiché sarebbe immunizzata da ogni infedeltà. Amore, scambio, concorrenza e fedeltà. Il rapporto di scambio, a cui l’amore ha tenuto testa – almeno in parte – durante l’età borghese, ha finito per assorbirlo completamente; l’ultima immediatezza è sacrificata alla distanza reciproca di tutti i contraenti. L’amore è paralizzato dal valore che l’io attribuisce a se stesso. Il suo amore gli appare come un “amare in più”, e chi ama in più si mette dalla parte del torto. Egli si rende sospetto all’amata, e, respinto su se stesso, la sua inclinazione degenera in crudeltà possessiva e fantasia autodistruttiva. “Le relazioni con una donna che amiamo – si dice in Le temps retrouvè – possono anche restare platoniche per una ragione diversa da quella della virtuosità della donna o della natura poco sensuale dell’amore da lei ispirato (…)”. L’inutile beautè. Donne di singolare bellezza sono condannate alla sventura. Anche quelle che hanno tutte le condizioni favorevoli, e che sono assistite dalla nascita, dalla ricchezza, dal talento, sembrano come perseguitate o possedute dall’impulso alla distruzione di se e di tutti i rapporti umani a cui partecipano. Un oracolo le costringe alla scelta tra destini ugualmente fatali. O scambiano saggiamente la bellezza col successo, e pagano con la felicità la condizione di questo: non essendo più in grado di amare, avvelenano l’amore che gli altri nutrono per loro e finiscono per restare a mani vuote. Oppure il privilegio della bellezza conferisce loro il coraggio e la sicurezza di rinunciare allo scambio. Prendono sul serio la felicità che in esse si promette, e non sono avare di se, poichè l’inclinazione di tutti consente loro di non rappresentarsi direttamente il proprio valore. La scelta cade nella loro giovinezza, e ciò le mette nell’impossibilità di scegliere: nulla è definitivo, tutto è subito sostituibile. Molto presto, senza rifletterci troppo, si sposano, si obbligano a doveri pedestri, e si privano, in un certo senso, del privilegio della possibilità infinita: si abbassano, cioè, a comuni mortali. Ma nello stesso tempo restano attaccate al sogno infantile di onnipotenza che la vita fece balenare davanti a loro, e non cessano – in questo non borghesi – di rinunciare all’uovo di oggi per la gallina di domani. E’, il loro, un tipo particolare di carattere distruttivo. Proprio il fatto di essere state un tempo fuori concorso, le mette in coda alla concorrenza, che ora esercitano con furia morbosa. Il gesto dell’irresistibilità sopravvive all’irresistibilità perduta: il fascino decade, non appena, anziché rappresentare una speranza, fissa, per cosi dire, il proprio domicilio. Ma quella che non è più irresistibile è subito vittima: è sottomessa all’ordine che un tempo sorvolava. La sua generosità riceve il giusto castigo. L’appassita come l’ossessa sono martiri della felicità. La bellezza inquadrata nell’ordine si è trasformata in un elemento calcolabile dell’esistenza, in un surrogato della vita che non esiste, senza trascendere in nulla questa funzione. Essa non ha mantenuto la sua promessa di felicità per se e per gli altri. Ma quella che insiste assume l’alone della sventura, ed è colpita a sua volta dalla sventura. Il mondo razionalizzato ha assorbito e liquidato definitivamente il mito. L’invidia degli dèi sopravvive agli dèi. Costanza. La società borghese insiste sempre e dovunque sullo sforzo della volontà; solo l’amore dev’essere involontario, pura immediatezza del sentimento. In questa aspirazione all’immediatezza, che mira all’esenzione dal lavoro, l’idea borghese dell’amore trascende la società borghese. Ma in quanto vorrebbe erigere il vero immediatamente nella falsità universale, lo perverte in quest’ultima. Non solo nel senso che il puro sentimento, nella misura in cui è tuttora possibile nel sistema economicamente determinato, diventa subito – dal punto di vista sociale – un alibi per il dominio dell’interesse, e testimonia di un’umanità che non esiste. Ma l’involontarietà dell’amore, anche dove non è predeterminata dalla prassi, contribuisce a consolidare quel tutto non appena si stabilisce come principio. Se l’amore deve rappresentare, entro la società, una società migliore, non la rappresenta come oasi pacifica, ma come resistenza consapevole. Ma la resistenza esige proprio quel momento di arbitrio che i borghesi, per cui l’amore non sarà mai abbastanza naturale, gli vietano rigorosamente. Amare significa saper impedire che l’immediatezza sia soffocata dall’onnipresente pressione della mediazione, dall’economia, e in questa fedeltà l’amore si media in se stesso, accanita contropressione. Non ama se non chi ha la forza di tener fermo all’amore. Al privilegio sociale sublimato, che predetermina la stessa formazione degli impulsi, e – attraverso mille sfumature di ciò che è approvato dall’ordine – fa apparire spontaneamente attraente ora questo ed ora quell’altro, si oppone l’inclinazione una volta concepita, in quanto dura e resiste, mentre il meccanismo della forza di gravità sociale (prima di ogni intrigo, che è poi regolarmente assunto al suo servizio) fa di tutto per impedirlo. Il sentimento, supera la prova decisiva quando supera se stesso nella durata, e sia pure come ossessione. Ma colei che sotto l’apparenza della spontaneità irriflessa, e fiera della sua presunta sincerità, si abbandona interamente a quella che ritiene essere la voce del cuore, e fugge non appena crede di non avvertire più quella voce, è – proprio in quella sovrana indipendenza – lo strumento della società. Passivamente, senza saperlo, registra i numeri che escono via via alla roulette degli interessi. Mentre tradisce l’amato, tradisce se stessa. L’ordine della fedeltà, che la società impartisce, è strumento d’illibertà, ma è solo nella fedeltà che la libertà si ribella all’ordine della società. Matrimonio e interesse. Uniti e separati. Il matrimonio, la cui abbietta parodia sopravvive in un’epoca che ha sottratto ogni terreno al matrimonio come diritto umano, serve oggi, per lo più, al trucco dell’autoconservazione: ognuno dei due congiurati attribuisce all’altro la responsabilità di tutto il male che commette, mentre – in realtà – essi vivono insieme una vita torbida e stagnante. Un matrimonio dignitoso sarebbe solo quello in cui l’uno e l’altro avessero una vita indipendente, senza la fusione prodotta dalla comunità d’interessi che è imposta dalla necessità economica, e si assumessero – in perfetta libertà – la responsabilità l’uno dell’altro. Il matrimonio come comunità d’interessi significa inevitabilmente la degradazione dei partecipanti, e la perfidia dell’ordinamento del mondo è che nessuno, anche se ne fosse consapevole, potrebbe sfuggire a questa degradazione. A volte si potrebbe pensare che la possibilità di un matrimonio senza infamia sia riservata a quelli che sono dispensati dalla ricerca dell’interesse, e cioè ai ricchi. Ma questa possibilità è del tutto formale, poichè questi privilegi sono proprio quelli per cui la ricerca dell’interesse è diventata una seconda natura: altrimenti non conserverebbero il privilegio.

Minima moralia –  Theodor W. Adorno – 1951

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