La collana (La parure) è un racconto di Guy de Maupassant, pubblicato per la prima volta il 17 febbraio 1884 dal quotidiano Le Gaulois ed inserito nella raccolta in volume dell’anno successivo. La storia è presto divenuta una delle più popolari dello scrittore francese, famosa soprattutto per la sua conclusione.

La collana

Era una di quelle ragazze belle e seducenti che nascono, come per un errore del destino, in una famiglia d’impiegati. Era senza dote, senza speranze, non aveva alcuna possibilità d’essere conosciuta, capita, amata e sposata da un uomo ricco e raffinato; e lasciò che la sposassero a un impiegatuccio del ministero della Pubblica Istruzione.
Non potendo far lussi, si vestì con semplicità, ma fu infelice, come se fosse degradata; perché le donne non appartengono a una casta o a una razza: bellezza, grazia e fascino sostituiscono per loro nascita e famiglia. La congenita finezza, l’eleganza istintiva, l’agilità della mente, ecco l’unica gerarchia, che rende le popolane uguali alle più grandi dame.
Soffriva di continuo, sentendosi destinata a tutte le delicatezze, a tutti i lussi; soffriva per la povertà del suo appartamento, per la miseria delle pareti, per le seggiole consumate, la bruttezza delle stoffe. Tutte queste cose, delle quali un’altra donna delle sue condizioni non si sarebbe nemmeno accorta, la torturavano, la irritavano. Nel vedere la piccola bretone che le faceva il servizio, si destavano in lei desolati rimpianti, vaghi sogni. Pensava ad anticamere silenziose, ovattate da parati orientali, illuminate da grandi torciere di bronzo, a due valletti in polpe che sonnecchiavano nelle grandi poltrone, intorpiditi dal caldo pesante del calorifero. Pensava a grandi sale rivestite di sete antiche, a mobili pregiati adorni di ninnoli preziosi, a salotti civettuoli, profumati, fatti apposta per le conversazioni del pomeriggio cogli amici più intimi, gli uomini più noti e ricercati, coloro che tutte le donne invidiano, desiderano, vorrebbero per sé.
Quando sedeva a desinare davanti alla tavola tonda coperta dalla tovaglia di tre giorni avanti, di fronte al marito che scoperchiava la zuppiera esclamando estasiato: – Ah, che bella minestra!… Non c’è nulla di meglio… – ella pensava a pranzi raffinati, a lucenti argenterie, ad arazzi che popolano i muri di antichi personaggi e strani uccelli in mezzo a foreste incantate; pensava alle vivande squisite servite in meravigliosi piatti, alle galanterie sussurrate ed ascoltate con uno sfingeo sorriso, mangiando la carne rosata d’una trota o un’ala di pollastrella.
Non aveva bei vestiti, non aveva gioielli; ed erano le sole cose che le piacessero, quelle per cui si sentiva nata. Avrebbe tanto desiderato piacere, essere invidiata, essere seducente, corteggiata.
Aveva un’amica ricca, una compagna di convento, e non andava più a trovarla perché dopo ogni visita provava troppo dispiacere. Piangeva per giornate intere, di rimpianto, di disperazione, di sconforto.
Una sera il suo marito ritornò a casa tutto trionfante, tenendo in mano una grande busta:

– Tieni, – disse, – ecco una cosa per te.

Lei strappò nervosamente la busta e ne trasse un cartoncino su cui era scritto:«Il ministro della Pubblica Istruzione e la signora Ramponneau hanno l’onore d’invitare i signori Loisel alla serata che si svolgerà lunedì 18 gennaio nel palazzo del ministero».

Invece d’esser contenta, come si figurava il marito, ella buttò l’invito sulla tavola, mormorando:

– Che vuoi che me ne faccia?

– Ma, tesoro, pensavo che t’avrebbe fatto piacere. Non andiamo mai in nessun posto, e questa è una bella, una magnifica occasione. Ho dovuto faticar molto per ottenere quest’invito; lo vorrebbero tutti, tutti si danno da fare e ce ne son pochissimi per gl’impiegati. Ci sarà tutta la società governativa.

Lei lo fissava corrucciata e disse con voce impaziente:

– Che cosa vuoi che mi metta addosso, per andare in un posto come quello?

Non ci aveva pensato; balbettò:

– Il vestito che ti metti per andare al teatro; mi pare molto bello.

Tacque, stupito e confuso, nel vedere che sua moglie piangeva. Due lacrimone colavano lentamente dagli angoli degli occhi agli angoli della bocca.

– Che hai? che hai? – le chiese Loisel.

Con uno sforzo Mathilde s’era dominata e rispose con voce normale, asciugandosi le guance umide:

– Nulla. Soltanto che non ho vestiti e alla festa non ci posso venire. Dai quell’invito a qualche tuo collega che abbia la moglie messa un po’ meglio di me.

Loisel era dispiaciuto; disse:

– Via, Mathilde… Quanto verrebbe a costare un vestito decente, che ti potrebbe servire anche in altre occasioni, qualcosa di semplice?…

Lei rifletté per qualche istante, facendo i conti e pensando alla somma che avrebbe potuto chiedere senza avere un rifiuto immediato e provocare lo stupore spaventato dell’economo impiegatuccio.

Alla fine rispose, esitando:

– Non saprei con esattezza, ma penso che potrei farcela con quattrocento franchi.

Loisel impallidì leggermente, perché aveva da parte proprio quella somma per comprarsi un fucile con cui andare a caccia, d’estate, nella pianura di Nanterre, insieme a degli amici che tutte le domeniche andavano in quei paraggi a tirare alle allodole.

Eppure rispose:

– Va bene. Ti do quattrocento franchi. Ma guarda di farti fare un bel vestito.

 

S’avvicinava il giorno della festa e la signora Loisel sembrava triste, inquieta, preoccupata. Eppure il vestito era pronto. Una sera suo marito le chiese:

– Che hai, Mathilde? Sono tre giorni che mi sembri un po’ strana.

Lei rispose:

– Mi dispiace di non avere nemmeno un gioiello, una pietra, una cosa qualunque da mettermi addosso. Chissà come sembrerò misera… Quasi quasi preferirei non andare alla festa.

– Puoi metterti dei fiori freschi, – propose lui. – Di questa stagione sono elegantissimi. Con dieci franchi ti puoi comprare due o tre rose magnifiche.

Mathilde non pareva convinta:

– No, no… Non c’è niente di più umiliante che apparir poveri in mezzo alle donne ricche.

Il marito esclamò:

– Quanto sei sciocca! Vai dalla tua amica, la signora Forestier, e fatti prestare un gioiello da lei. Siete abbastanza amiche perché tu lo possa fare.

Ella mandò un gridolino di gioia:

– È vero. Non ci avevo pensato.

Il giorno dopo andò dalla sua amica e le raccontò in quale imbarazzo si trovasse.

La signora Forestier andò verso l’armadio a specchio, ne trasse un cofanetto, lo aprì e disse alla signora Loisel:

– Ecco, cara: scegli.

Vide braccialetti, una collana di perle, una croce veneziana d’oro e pietre, di mirabile fattura. Si provava i gioielli davanti allo specchio, esitava, non sapeva decidersi a toglierseli, a rimetterli dentro. Chiedeva:

– C’è dell’altro?

– Ma sì: cerca; non so che cosa preferisci…

Ad un tratto Mathilde scoprì in una scatola di raso nero una collana di diamanti, magnifica: sentì una voglia smodata tumultuarle nel cuore. Nel prenderla le tremavano le mani. Se l’agganciò sopra il vestito accollato e stette a rimirarsi, in estasi.

Esitante e piena di paura chiese:

– Potresti prestarmela, questa, questa soltanto?

– Ma sì, certo…

Mathilde saltò al collo dell’amica, la baciò con trasporto, e scappò col tesoro.

 

Venne la sera della festa. La signora Loisel trionfò. Era la più bella di tutte, elegante, graziosa, sorridente, fuor di sé dalla gioia. Tutti gli uomini la guardavano, chiedevano chi fosse, cercavano d’esserle presentati. Tutti i segretari di gabinetto vollero ballare il valzer con lei. Il ministro la notò.
Ballava, inebriata, con slancio, stordita dal piacere, senza pensare a nulla, nel trionfo della sua bellezza, nella gloria del successo, in una sorta d’aureola di felicità formata dagli omaggi, dall’ammirazione, dai desideri suscitati, dalla sua vittoria così completa e così cara al suo cuore di donna.

Andò via alle quattro di mattina. Suo marito da mezzanotte stava dormendo in un salottino insieme ad altri tre signori le cui mogli si divertivano moltissimo.
Lui le buttò sulle spalle il soprabito che aveva portato, un modesto soprabito che per la sua povertà contrastava con l’eleganza del vestito da ballo. Mathilde se ne accorse e volle scappar via per non essere vista dalle altre donne che si stringevano addosso le loro ricche pellicce.

Loisel la trattenne:

– Aspetta un momento. Piglierai un malanno. Vado a chiamare una carrozza.

Ma lei non gli diede retta e scese rapidamente la scala. Per la strada non c’erano carrozze, e si misero a cercarne una, chiamando i cocchieri che vedevano passare di lontano.
Andarono verso la Senna, senza più speranze, tremando di freddo. Finalmente, sul lungosenna, trovarono una di quelle carrozzelle nottambule che a Parigi escono fuori soltanto la notte, come se si vergognassero di mostrare alla luce la loro miseria.
Furono portati fino all’uscio di casa, in via des Martyres, salirono tristemente le scale. Era finito, pensava lei. E lui pensava che alle dieci sarebbe dovuto essere al ministero.
Mathilde si levò il soprabito che le copriva le spalle, davanti allo specchio, per potersi vedere ancora una volta in tutto il suo splendore. Gettò un grido improvviso. Non aveva più la collana!

Suo marito, già mezzo spogliato, le chiese:

– Che c’è?

Mathilde si voltò verso di lui, sgomenta:

– Ho perso la collana… la collana della signora Forestier…

Lui si rizzò, esterrefatto:

– Cosa? Come? non è possibile!

Cercarono tra le pieghe del vestito, del mantello, nelle tasche, dappertutto. Non c’era.

Il marito chiese:

– Sei sicura che l’avevi ancora quando siamo venuti via?

– Sì, me la sono toccata nell’atrio del ministero.

– Ma se l’avessi persa per la strada, si sarebbe sentita cadere. Dev’essere nella carrozza.

– Può darsi… Hai visto che numero aveva?

– No, e tu?

– Nemmeno io.

Si guardarono atterriti. Finalmente Loisel si rivestì.

– Vado a rifare la strada che abbiamo percorso a piedi, – disse, – per vedere se la ritrovo.

E uscì. Lei rimase col vestito addosso senza aver la forza d’andare a letto, afflosciata su una sedia, col cervello vuoto.
Loisel tornò alle sette, senza aver trovato nulla
Andò alla prefettura di polizia, ai giornali per promettere una ricompensa, alla società delle carrozze, ovunque un barlume di speranza lo sospingesse.
Mathilde aspettò per tutta la giornata nello stesso stato di prostrazione, davanti a quel tremendo disastro.
Loisel tornò a casa la sera, col viso incavato, pallido; non aveva trovato nulla.

– Scrivi alla tua amica, – disse, – che ti s’è rotto il fermaglio della collana, e che l’hai data ad accomodare. Avremo tempo di pensare qualcosa.

Mathilde scrisse quel che lui dettò.
In capo a una settimana avevano perso qualunque speranza.
Loisel, che era invecchiato di cinque anni, disse:

– Dobbiamo comprarne un’altra…

Il giorno dopo presero l’astuccio e andarono dal gioielliere il cui nome era scritto nell’interno. Questi consultò i registri:

– No, signora, questa collana non l’abbiamo venduta noi. Soltanto l’astuccio è nostro.

Allora andarono da un gioielliere all’altro, cercando una collana uguale a quella perduta, cercando di ricordarsi, tutti e due febbricitanti di dolore e d’angoscia.
In una bottega del Palazzo Reale trovarono un rosario di diamanti che pareva preciso a quello che cercavano. Valeva quarantamila franchi. Potevano darlo per trentaseimila.
Pregarono il gioielliere di non venderla per tre giorni. E misero come condizione che l’avrebbe ripresa indietro per trentaquattromila franchi se quella perduta fosse stata ritrovata entro il mese di gennaio.
Loisel possedeva diciottomila franchi che gli aveva lasciato suo padre. Il resto lo avrebbe preso in prestito.
Andò a chiedere mille franchi da questo, cinquecento da quello, cinque luigi qui, tre luigi là. Firmò cambiali, prese impegni disastrosi, ebbe a che fare con usurai e con ogni specie di strozzini. Compromise tutto il resto della sua vita, rischiò la sua firma senza neanche sapere se avrebbe potuto farle onore e, angosciato dal pensiero del futuro, della miseria nera che gli sarebbe caduta addosso, dalla prospettiva delle privazioni fisiche e delle torture morali, andò a comprare la collana nuova, posando sul banco del gioielliere i trentaseimila franchi.

Quando la signora Loisel riportò la collana alla signora, costei le disse con tono seccato:

– Me l’avresti dovuta riportare prima, potevo averne bisogno…

Non aprì l’astuccio, come Mathilde temeva. Se si fosse accorta dello scambio, che cosa avrebbe pensato? che avrebbe detto? Poteva anche considerarla una ladra.

 

La signora Loisel conobbe l’orribile vita dei bisognosi. Vi si adattò subito, eroicamente. Era necessario pagare quel tremendo debito. Lo avrebbe pagato. Licenziarono la servetta, cambiarono casa: andarono a stare in una soffitta.

Mathilde conobbe le più dure faccende, le più odiose fatiche della cucina. Rigovernò, rovinandosi le unghie rosa sui piatti unti, sui tegami. Lavò la biancheria sudicia, le camicie, gli stracci, stendendoli ad asciugare su una corda stesa. Tutte le mattine portava giù la spazzatura e portava su l’acqua, fermandosi ad ogni piano per ripigliar fiato. Vestita come una donna del popolo, andava dall’erbaiolo, dal droghiere, dal macellaio, col paniere sottobraccio, tirando sui prezzi, ricevendo ingiurie pur di difendere a soldo a soldo il suo miserabile denaro.
Tutti i mesi dovevano pagare cambiali, rinnovarne altre, guadagnar tempo.
Il marito lavorava di sera: teneva la contabilità d’un negoziante, e spesso, di notte, faceva il copista a cinque soldi per pagina.
Questa vita durò dieci anni.
Dopo dieci anni avevano restituito tutto, compresi gl’interessi degli strozzini e tutto l’insieme degli interessi composti.
Mathilde pareva una vecchia. Era diventata la donna forte, dura, rude, delle famiglie povere. Spettinata, con la gonnella di traverso, le mani rosse, parlava a voce alta, lavava i pavimenti buttandoci l’acqua col secchio. Eppure, qualche volta, quando suo marito era in ufficio, si sedeva accanto alla finestra e pensava a quella serata, a quel ballo in cui era stata tanto bella e tanto festeggiata.
Che sarebbe accaduto se non avesse perso la collana? Chi lo sa? Com’è strana la vita, e mutevole! Quanto poco ci vuole per perdersi o salvarsi!

Una domenica era andata agli Champs-Elysées per distrarsi un po’ dalle faccende; ad un tratto scorse una signora che stava passeggiando, con un fanciullo. Era la signora Forestier, sempre giovane, sempre bella, sempre attraente.
La signora Loisel si sentì turbata. Le avrebbe rivolto la parola? Sì, certamente. Anzi, ora che aveva pagato, poteva dirle tutto: perché no?

Le si avvicinò.

– Buongiorno, Jeanne.

L’altra non la riconosceva, ed era stupita di sentirsi chiamare con tanta confidenza da quella popolana.

– Ma, signora… – balbettò; – non… Credo che vi siate sbagliata…

– No. Sono Mathilde Loisel.

L’amica mandò un grido:

– Oh! Povera Mathilde, come sei cambiata!

– Sì… ho passato giornate dure, da quando non ci siamo più viste, e tanta miseria… per colpa tua.

– Mia? Per colpa mia?

– Ti ricordi quella collana di diamanti che mi prestasti per andare alla festa del ministero?

– Sì; ebbene?…

– Ebbene, la persi…

– Ma com’è possibile! Se me l’hai resa!

– Te n’ho comprata un’altra uguale. Sono dieci anni che la stiamo pagando. E capisci che per noi non è stata una cosa facile. Non avevamo nulla. Ora però è finito, e sono proprio contenta.

La signora Forestier s’era fermata.

– Mi dici che hai comprato una collana di diamanti per sostituire la mia?

– Sì: non te n’eri accorta, vero? Era proprio uguale.

E sorrideva, orgogliosa e ingenuamente felice.

La signora Forestier, sconvolta, le afferrò le mani:

– Oh, mia povera Mathilde! La mia era falsa! Valeva tutt’al più cinquecento franchi…

 

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