Il lamento della pace 

Pochi anni fa, quando il mondo era travolto a prendere le armi da non so quale peste esiziale, alcuni araldi del Vangelo, frati Minori e Predicatori, dal sacro pulpito davano fiato ai corni di guerra e ancor piú infervoravano chi già propendeva per quella follia. In Inghilterra aizzavano contro i Francesi, in Francia animavano contro gli Inglesi, ovunque spronavano alla guerra. Alla pace non incitava nessuno tranne uno o due, a cui costò quasi la vita l’aver soltanto pronunciato il mio nome. Prelati consacrati scorrazzavano un po’ dovunque dimentichi della loro dignità e dei loro voti, e inasprivano con la loro opera il morbo universale, istigando ora il pontefice romano Giulio, ora i monarchi ad affrettare la guerra, quasi che non fossero già abbastanza folli per conto loro. Eppure questa patente pazzia noi l’avvolgemmo in splendidi titoli. A tal fine sono da noi distorte con somma impudenza – dovrei dire con sacrilegio – le leggi dei padri, gli scritti di uomini santi, le parole della Sacra Scrittura. Le cose sono giunte a tal punto che risulta sciocco e sacrilego pronunciarsi contro la guerra ed elogiare l’unica cosa elogiata dalla bocca di Cristo. Appare poco sollecito del bene del popolo e tiepido sostenitore del sovrano chi consiglia il massimo dei benefici e scoraggia dalla massima delle pestilenze.

Ormai i sacerdoti seguono perfino le armate, i vescovi le comandano, abbandonando le loro chiese per occuparsi degli affari di Bellona. Ormai la guerra produce addirittura sacerdoti, prelati, cardinali ai quali il titolo di legato al campo sembra onorifico e degno dei successori degli Apostoli. Per cui non fa meraviglia se hanno spirito marziale coloro che Marte ha generato. Per rendere poi il male insanabile, coprono un tale sacrilegio col sacro nome della religione. Sugli stendardi sventola la croce. Armigeri spietati e ingaggiati per poche monete a compiere macelli spaventosi innalzano l’insegna della croce, e simboleggia la guerra il solo simbolo che dalla guerra poteva dissuadere. Che hai a che fare con la croce, scellerato armigero? I tuoi sentimenti, i tuoi misfatti convenivano ai draghi, alle tigri, ai lupi. Quel simbolo appartiene a Colui che non combattendo ma morendo colse la vittoria, salvò e non distrusse; da lí soprattutto potevi imparare quali sono i tuoi nemici, se appena sei cristiano, e con quale tattica devi vincere. Tu innalzi l’insegna della salvezza mentre corri alla perdizione del fratello, e fai perire con la croce chi dalla croce fu salvato? Ma che! Dai sacri e adorabili misteri trascinati anch’essi per gli accampamenti, da queste somme raffigurazioni della concordia cristiana si corre alla mischia, si avventa il ferro spietato nelle viscere del fratello e sotto gli occhi di Cristo si dà spettacolo della piú scellerata delle azioni, la piú gradita ai cuori empi: se pure Cristo si degni di essere là. Colmo poi dell’assurdo, in entrambe le armate, in entrambi gli schieramenti brilla il segno della croce, in entrambe si celebra il sacrificio. Quale mostruosità è questa? La croce in conflitto con la croce, Cristo in guerra con Cristo. È un simbolo fatto per atterrire i nemici della cristianità: perché adesso combattono quello che adorano? Uomini degni non di quest’unica croce, ma della croce patibolare.

Ditemi, come il soldato può recitare il “Padre nostro” durante queste messe? Bocca insensibile, osi invocare il Padre mentre miri alla gola del tuo fratello? “Sia santificato il tuo nome”: come si potrebbe sfregiare il nome di Dio piú che con queste vostre risse? “Venga il tuo regno”: cosí preghi tu che su tanto sangue erigi la tua tirannide? “Sia fatta la tua volontà, come in cielo, cosí anche in terra”: Egli vuole la pace, tu prepari la guerra. “Il pane quotidiano” chiedi al Padre comune mentre abbruci le messi del fratello e preferisci che vadano perse anche per te piuttosto che giovare a lui? Infine come puoi pronunciare con la lingua le parole “e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” mentre ti lanci a un fratricidio? Scongiuri il rischio della tentazione mentre con tuo rischio getti nel rischio il fratello. “Dal male” chiedi di essere liberato mentre ti proponi di causare il massimo male al fratello?

Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, Einaudi, Torino, 1990, pagg. 51-55

 

L’elogio della pazzia  (1511)

Primo estratto:

C’è chi si prodiga con ogni cura per gli affari degli altri mentre trascura i propri, e chi, preso nel giuoco dei debiti, prossimo a fallire, si crede ricco del denaro altrui; un altro pone all’apice della sua felicità morire povero pur di arricchire l’erede. Questi per un guadagno modesto, e per giunta incerto, corre tutti i mari, affidando la vita, che il denaro non ricompra, alle onde e ai venti; quello preferisce cercare di arricchirsi in guerra piuttosto che starsene al sicuro in casa sua. Ci sono di quelli che credono si possa arrivare alla ricchezza senza la minima fatica andando a caccia di vecchi senza eredi; né manca chi, in vista dello stesso risultato, opta per un legame con vecchiette danarose. Gli uni e gli altri offrono agli Dei che stanno a guardare uno spettacolo oltremodo divertente, quando si fanno abbindolare proprio da coloro che vogliono intrappolare. La razza più stolta e abietta è quella dei mercanti che, pur trattando la più sordida delle faccende e nei modi più sordidi, pur mentendo, spergiurando, rubando, frodando a tutto spiano, si credono da più degli altri perché hanno le dita inanellate d’oro. Né mancano di adularli certi fraticelli che li ammirano e li chiamano apertamente venerabili, senza dubbio perché una piccola parte degli illeciti profitti vada a loro. Altrove puoi vedere dei Pitagorici, a tal segno convinti della comunanza dei beni, che, se trovano qualcosa d’incustodito, tranquillamente se ne appropriano come l’avessero ricevuto in eredità. C’è chi, ricco solo di speranze, sogna la felicità, e già questo sogno, per lui, è la felicità. Taluni si compiacciono di essere creduti ricchi, mentre a casa loro muoiono di fame. Uno si affretta a dilapidare tutto quello che possiede; un altro accumula con mezzi leciti e illeciti. Questo si fa portare candidato perché ambisce a pubbliche cariche, quello è contento di starsene accanto al fuoco. E sono tanti quelli che intentano interminabili cause e che, portatori di opposti interessi, fanno a gara per arricchire il giudice che accorda rinvii, e l’avvocato che è in combutta con la parte avversa. Uno ha la mania di rinnovare il mondo, un altro propende per il grandioso. C’è chi, senza nessuna ragione d’affari, lascia a casa moglie e figli e se ne va a Gerusalemme, a Roma, a San Giacomo di Compostella.”

Secondo Estratto:

Della medesima pasta sono anche questi altri che rincorrono una fama immortale mediante la pubblicazione di libri. Tutti mi sono largamente debitori (a Follia n.d.r.), ma specialmente chi imbratta carte con pure e semplici sciocchezze. Infatti gli scrittori dotti, che mirano al giudizio di pochi intenditori senza rifiutare né Persio né Lelio (Persio: sommo erudita, Lelio: una nullità rispetto al primo. n.d.r.), a me almeno sembrano più da compiangere che non gente felice,per i continui tormenti che s’infliggono. Aggiungono, cambiano, tolgono,scartano, riprendono, rifondono, mostrano, occultano per nove anni, mai soddisfatti; e una futile ricompensa, ossia un elogio, e di pochissime persone, viene da loro comprato a un prezzo esorbitante, tante veglie, tanta perdita di sonno(la cosa più dolce del mondo), tanti sudori, tanti crucci. Aggiungi ancora lo sciupio della saluta, la perdita della bellezza, la miopia, la povertà, la gelosia, l’astinenza dai piaceri, la vecchiaia precoce, la morte prematura e via dicendo. Con tante sciagure quel saggio stima di dover comprare l’approvazione di un paio di cisposi! Quanto più felice invece il mio scrittore nei suoi vaneggiamenti! Senza alcuno studio, subito, egli affida alla scrittura come gli viene in mente ciò che gli capita sotto la penna, anche i suoi deliri, con un lievissimo spreco di carta. Sa che più sciocche sciocchezze si scrivono, tanto più si sarà apprezzati dalla gran massa, ossia dalla totalità dei folli e degli ignoranti. Perché infatti preoccuparsi dello spregio di tre esperti, ammesso che li leggano? Quale valore avrà il voto di così scarsi intenditori in una folla così sterminata di plaudenti? Ma ancora più saggi coloro che pubblicano come propri scritti altrui e trasferiscono su di sé, con parole, una gloria acquistata da altri a gran fatica, evidentemente fidando sul fatto che anche con la peggiore accusa di plagio lucreranno intanto per qualche tempo un bel guadagno.

Val la pena di osservare come si compiacciono delle lodi del volgo, di essere additati tra la folla:” Ecco lì quell’uomo famoso!”; di essere esposti in vetrina nelle librerie, coi loro nomi stampati in testa a ogni pagina, tanto più se stranieri e cabalistici! Ma per gli dei immortali. che altro sono, se non nomi? e quanto pochi li conosceranno, se si tiene conto dell’immensità della terra, e ancor meno li elogeranno, tanto sono diversi i gusti anche degli ignoranti. E che dire dell’uso non raro d’inventare i nomi stessi o di riprenderli da libri antichi? C’è chi gode di farsi chiamare Telemaco o Steleno o Laerte, Policrate o Trasimaco; per cui conta ormai poco o nulla se s’intitola un libro Camaleonte o Zucca, ovvero con un alfa e una beta, secondo il linguaggio dei filosofi.

Ma il colmo dello spasso è quando si esaltano a vicenda con scambi di lettere, carmi, elogi rivolti da folli a folli, da ignoranti a ignoranti. Uno esce dall’approvazione di un altro come un Alceo. e quello dall’approvazione dell’altro come un Callimaco(poeti arcaici greci e alessandrini, n.d.r.). Per uno, l’altro è più grande di Marco Tullio, e per quest’altro lui è più dotto di Platone. A volte si cercano anche un antagonista per gonfiare con la sfida la propria fama; allora “si scinde il volgo incerto in due contrarie passioni”, fino a che i due caporioni si ritirano entrambi vincitori dopo un glorioso combattimento e celebrano entrambi il trionfo. Ne ridono i saggi, come di cose assolutamente folli: e lo sono, come no? Ma intanto grazie a me (Follia ndr)quelli passano una dolce vita, né sarebbero disposti a scambiare i propri trionfi nemmeno con gli Scipioni. Né i dotti stessi, mentre con gran piacere del loro spirito ridono di queste cose e profittano della follia altrui, anch’essi mi sono non poco debitori, né potrebbero negarlo se non a costo di essere di tutti i più ingrati.

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