Stamattina, mentre stavo per varcare la soglia della mostra “World press photo“, nella Sala Murat di Bari, sono stato preceduto di un soffio da una scolaresca in visita d’istruzione. Quando vedo una mostra ho bisogno di calma e concentrazione, voglio immergermi con gli occhi e con la mente, persino con il corpo, per vivere un’esperienza sensoriale che vada al di là della mera visita culturale. Dentro di me, quindi – pur essendo contento che ci fosse un’iniziativa di questo tipo – ho maledetto la sorte per essermi trovato ad entrare proprio in quel momento. Pazienza, mi sono detto: farò il giro nel verso opposto al loro.
C’era folla e, oltra a questa classe di liceo, più tardi ne è arrivata un’altra. Sono felice che l’esposizione abbia avuto successo.
La cosa più sorprendente è stata, però, che sono riuscito a concentrarmi ugualmente, a perdermi nelle immagini, nei volti dei bambini in fuga dalla guerra, nel pianto di quelli bombardati o delle donne violentate, nella felicità della coppia di lesbiche che partoriscono a pochi giorni di distanza.
In World press photo c’è tanta emozione.
C’è l’orrore di un mondo che genera morte, inquinamento e sofferenza ma, lì in mezzo, nel sangue e nelle macerie, ogni tanto s’infila una goccia di speranza, ed è la cosa più bella: la vedo nella felicità della fuga al di là di un confine di filo spinato, nello sguardo determinato di gente che si sobbarca traversate verso una nuova vita, persino nel modo bellissimo e creativo di affrontare un doppio tumore in un’anziana coppia statunitense.
Ma c’è anche un altro tipo di speranza, quella che deriva dal vedere tutti questi studenti attenti, incuriositi, pronti a leggere le storie che ci sono dietro ogni foto.
Perché non è vero che questi ragazzi sono una generazione già persa in partenza, ma chiaramente se li lasciamo in balia del vuoto che domina lo strato superficiale della nostra società lo saranno presto: bisogna trovare il coraggio di andare a fondo.
Mi sento in dovere, dunque, di fare un ringraziamento pubblico a quei professori che si sono presi la briga di portare gli alunni a vedere questa mostra, hanno provato a spiegargliela, si sono assunti la responsabilità di tenere a bada le teste calde.
In mezzo a tutti quegli adolescenti mi sono ricordato di una sera di questa estate: di una bambina di tre anni che è rimasta insieme a me e ai miei amici per due ore nel castello di Otranto a vedere le fotografie di Steve Mc Curry e, per tutto il tempo, ha fatto domande, si è incuriosita, interessata a ogni immagine che vedeva.
Il mondo può anche essere un posto migliore, quando ci si mette d’impegno.

Manlio Ranieri

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