Ciao Ivy, non leggerai questa lettera ma devo scriverti. Devo confessare. Non è stata la prima volta, ma ogni volta che i nostri grigi hanno raggiunto l’apice, un bisogno spasmodico di colore mi ha portato per le strade, senza cravatta. Un boccata di fumo espulsa tra i lampioni del Cerro è tutto quello che ho da dire per spiegarti il point break, la morte della ricorsività. Andando per via, nei miei viaggi argentini, godevo di puttane e alcol e brutti teatri che non m’avresti perdonato. Lo sapevi, in fondo. Algida nel tuo tailleur su misura, col cipiglio di un egoismo benevolo e per questo crudelissimo. Brava come non mai, tu. Perfettamente straordinaria durante le cene, col Dom Perignon e il piglio cittadino. No, lei non aveva la tua cultura, né il tuo passo marziale, i vestiti di seta orientale o le parole giuste. Mi chiese del numero  7, quando sarebbe passato. Ed era così tardi che la presi per pazza. Dove volesse andare, a ridosso dell’alba con un cestino di frutta e le scarpe scollate non l’ho mai saputo. Mi guardava come fossi io stesso quel grigio fumo, tra i lampioni del Cerro, senza nessun interesse. Si era chinata per raccogliere un tappo di bottiglia e metterselo in tasca, l’ho amata subito. Come non so. Il vestito bianco a fiori viola, di un cattivo gusto che t’avrebbe fatto storcere il naso.  Ci ritrovammo sui gradini grigi e polverosi di una piazzetta cadente, col vino-aceto dell’indiano, senza bicchieri, senza cravatta. Lei parlava di colori e buste di plastica, cani abbandonati e vicini perversi. Gli occhi neri come l’inchiostro e quei capelli sciolti, liquidi, lunghissimi. Non era bella nel senso che potresti pensare. Tu avresti detto che non c’era armonia in quel volto gitano e spigoloso, troppo minuta , trascurata, randagia. Ed era l’alba, io dentro di lei contro un muro scalcinato, per la strada. Il Cerro, la penombra, una foga animale. Quel sapore esotico,d’origano, denti e frutta matura. Mi sembrava così naturale essere lì, con le sue gambe intorno alla vita e gli ubriachi  notturni a biascicare oscenità. Prese poi il numero 7, ridendo come una bambina. La ritrovai lì, di notte, tra i lampioni e senza frutta. Sapevamo che ci saremmo stati, in quel luogo a quell’ora, dopo ventiquattro ore. È iniziata così, una specie di temporale caldo. E ti sembrava lavorassi tanto: turni di notte, riunioni, viaggi d’affari. Non era vero. Volevo la mia zingara, le sue labbra, i piedi, il culo. Ma non era solo questo. Quel modo d’ignorare e stupirsi: tutto per lei era un miracolo. Viveva ai piani alti di un vecchio palazzo del Cerro, senza ascensore, con la moquette strappata, la cucina a gas, un gatto grigio e le lampadine  appese al soffitto come ciondoli di luce. Girava i mercatini delle pulci e  costruiva oggetti inutili per passare il tempo. Ivy lei dipingeva, ed era brava. Tu le avresti deciso un drastico non talento, perché sei esperta d’arte e tutto ti ripugna. Per me era la migliore. Meglio di Klee, meglio di Mirò. Amava l’azzurro e spesso usava le dita invece dei pennelli. Un giorno la presi nei colori, lei sapeva ridere e giocare ed entrarmi nelle sinapsi. Aveva letto pochi libri ma sapeva leggermi, fossi per lei un semplice rotocalco. Sapeva di te e ti ammirava con un’innocenza disumana. Avrebbe dato chissà cosa per ascoltarti leggere ad alta voce. Le dicevo che avevi fatto l’attrice, da ragazza, e conoscevi le parole più belle. Le si accendevano gli occhi, com’era possibile non so spiegarmelo. Non ha mai voluto niente. Le comprai un vestito di Prada che finì in stracci per la polvere, orecchini d’oro bianco che scambiò con un carillon a forma di faro. Non capiva il valore delle cose, o forse aveva capito tutto. Era di un altro mondo e io un drogato. Di lei, dei suoi passi svelti e del sorriso che non si spegneva mai, neanche quando non riusciva a comprare le lenticchie o tra i fumi della cucina in cui lavorava. Le feci tante di quelle domande che lei sapeva eludere inventando qualche gioco di parole che perdeva sempre. Intesseva assurde teoretiche sul socialismo, i pesci, le vetrine dei negozi, le pezze umide, le stelle binarie. Quanto l’amavo, Ivy, come non ho mai amato te. E se sapessi dov’è ora la cercherei per chiederle di sposarmi. Iniziava lo spettacolo del nostro periodo più buio: ti vedevo ormai in trasparenza. E la gente ci invidiava, una coppia perfetta. Che belli, che bravi, che bella casa. Non era vero niente.  Ma non l’ho capito in tempo. Mandai via la mia zingara, per poi cercarla. E di nuovo via e di nuovo a cercarla. E soffriva. Soffriva anche per te e per me. Quante volte l’ho lasciata ad aspettarmi senz’avvisare che non ci sarei stato. C’eri tu, con le tue istanze governative e lei sul pavimento sporco. Non sapevo, non sapevo cosa fare. Gli anni passavano. E c’eri tu, c’era lei. Lei si ammalò, Ivy. Ed era un male della mente. La sua resilienza, quelle risate. Mi perdonava e si comprimeva. Raccontava storie strampalate per distendermi le sopracciglia. Un giorno la trovai china su una tela a singhiozzare. L’azzurro graffiato sulla tela e le unghia sporche. Un fiume d’acquaragia e un rosso che non era di tempera. Me ne andai via, senza toccarla, senza una parola. Avevo di nuovo la cravatta. Un tormento, le maschere sociali, i tuoi gioielli e la donna delle pulizie. Parlammo poi e lei rideva, mi accarezzava le guance e baciava le orecchie. Non era successo niente, per lei. Lei era abituata. Lei era una maga. Quante cose non ho mai saputo del suo miracolo. E continuammo, al Porto, per le strade del Cerro. Ed ero felice, poi tornavo nel mondo e un velo grigio mi toglieva il fiato. Senza preavviso, senza un biglietto, come un temporale gelido, la zingara è andata via. Era entrata dalla porta e uscita dalla finestra. E dormo con te, faccio sesso con te, mangio con te, ti porto dove vuoi andare, ti compro tutto  ciò che desideri. Te lo meriti o forse mi sento in colpa perché non ti amo. Pensavo che lei fosse il mio veleno, invece no. Il veleno sei tu. Ogni giorno, in ogni momento. Stiamo per sposarci e io sono un codardo che ha scelto la strada più semplice. Ed è tardi adesso, così tardi. Ma se un giorno dovessi incontrarla per strada, al Cerro o a Parigi, non spaventarti se non ritorno. Avrò fatto la cosa giusta, per una volta.

Delia Cardinale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*
*