E sei lì, tu e le ragioni della collera. Sui campi di maggio con la valigia di cartone. Il grano è ancora acerbo, ma devi andare. Dimenticare il sapore del pane, come al nord Europa. Freddo, ordinato, impeccabile. Un uomo in giacca e cravatta che si guarda il polso sul metrò. Ma non sarà per sempre. Il tempo di dimenticare i processi della mietitura, il setaccio, l’odore di forno. Non tornerai dove sei già stato. Sarà forse tempo di risaie umide o datteri selvatici. Magari Mombasa, Buenos Aires, Pechino. Ovunque, purchè non ci sia quel pane e neanche un suo lontano surrogato che stuzzichi l’appetito, per poi deludere il palato. Il tempo necessario a non averne più neanche il desiderio, talmente sarà distante, inusitato.

Avevi scritto di una lucciola che non avrebbe più trovato il suo albero, preconizzando la scomparsa del pane, la tavola sgombra, l’inedia. Di chi è la colpa non importa. Troppo tempo passato a contarsi gli sbagli addosso, estrinsecare il sentire come fosse il legame una partita a scacchi: muovono prima i bianchi, tre mosse avanti, ti mangio, mi lascio mangiare, scacco matto… Che pazzia. L’intellettualismo sul pane, accanto alla carne buona.  Sei così esausto.

Cresca lontano da te quel grano, tanto amato. Nutra altre bocche, altri cuori.

Non potevano nascere fiori gialli tra le pieghe del patto sociale, né fluire liberi fiumi entro i muri delle dighe. E poi le vere rivoluzioni esplodono nell’assenza di alternative, come quando ti lasciavi insultare nelle osterie. Ma sei oltre l’impulso del ragazzo che scappa di casa. Avevi pure pensato all’aurea comunione di pula e grano. Con tutti i coni d’ombra e le finzioni. Non si può prendere l’ascensore per la cima dell’Everest, neanche sedersi alle sue pendici sperando che si avvicini. È una lenta ascesa. Ad un certo punto manca l’aria per la differenza di pressione, bisogna tornare un po’ indietro per ricominciare.

Dimentica maggio, la falce e il covone. Il pane è una bugia perché dura poco, si vende solo a certe ore e presto s’indurisce. Quante volte ti sei morso i pugni di fame e rabbia. I segni sulle nocche la tua ribellione solitaria. T’avessero chiesto davvero perché, l’avessi saputo. E ogni dolcezza si frantuma, vana nella sua infinitesima immensità. Coriandoli furiosi sospesi a mezz’aria, tra quattro anguste pareti.  Che ieri profumavano di pane, oggi d’esequie. Si passa così, da imposte spalancate all’abbaino, dal punto nell’iride al lago d’inchiostro.  Ed è l’onta dell’irripetibile, lo spreco della paura, i circoli viziosi del dare e non dare, azione e reazione su corde in tensione che bastava pizzicare. Piegata la natura scatta improvvisa come una tagliola. Emergono  le varianti nell’officina dei perché. E tu, tu sei sempre stato semplicemente sacrificabile. Sul pendolo del dubbio qualcosa di troppo leggero per fare la differenza. Questione di massa e gravità, quindi questione di non amore. Né hai mai creduto al cielo delle stelle fisse, che tutto è in moto quando vive: il sistema linfatico, le galassie, la fotosintesi, una qualunque vita umana in evoluzione. Tutte le implicazioni dell’equilibrio dinamico.  Il principio che ti ha salvato, e potrebbe salvare chiunque non vede nel limite la negazione di ogni possibilità. Il tuo plusvalore si perderà nel tempo, mentre dimenticherai una cosa al giorno.

E la collera, tua amante e tiranna, rigira il rosario della logica, senza avemarie. Con una crudezza lavica che corrode le croste di pane, sotto il letto, negli stipi della cucina, tra le lenzuola azzurre. Come portando doni ad una porta chiusa, e vivendo quell’offesa che viola ciò che è sacro: un puro amore che si concede. E l’incubo notturno rivive ogni momento, deformandolo e  nel soprassalto improvviso della ragione ripeterti : “non era niente”. Eppure questo niente… dove l’hai fatto arrivare. Ripensando poi ai soliti duelli, se questa donna t’abbia mai chiesto come, porgendoti una volta il fazzoletto bianco. Di tutta la forza, dell’odio e dell’amore, del morire di paura. Ma ora sei di una strana lega che non si ossida, dopo la scoperta della gioia. E le dicevi che non sarebbe stata mai sola, che non avrebbe mai perso niente. Nei suoi occhi eri un’altra persona. Di rose e cemento armato, pronta alla fuga, in un ghetto di filo spinato.  Una baccante d’agosto vestita d’infedeltà e frenesia. Invece no, e la rabbia s’addensa. Perché lei non ha mai visto la lira d’Orfeo tra le tue mani, quella tua sfida all’Averno, il canto che invocava il suo nome così  dolcemente da commuovere bestie e minerali. Quel dubbio sheakespeariano sulla tua natura doppia, sul tuo sesso casuale. E la furia erompe sugli specchi, dopo il patto d’alleanza con l’identità, oltre la frontiera. Nell’insulto autoindotto del non essere abbastanza, quando non è vero. Non è vero. Sarà per altre schiene la carezza, per altri seni.  Quando una donna ti porterà i fiori gialli e tu non avrai bisogno di cercarli, quando questa creatura del sogno ascolterà le tue storie, ti indicherà la sua scuola elementare e sarà orgogliosa di averti accanto.

Dimentica il pane, una briciola per volta.

Delia Cardinale

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