La memoria di JFK è entrata nel canzoniere americano in maniera esplicita e la frontiera, il luogo simbolico per eccellenza della politica di John Kennedy.

Ecco a voi alcuni esempi:

Police, Born in the 50’s, 1978. “Mia madre pianse quando Kennedy morì”. Nel primo album dei Police, Sting rievoca la sua infanzia. E la morte di Jfk diventa il momento in cui, nella sua vita da bambino, per la prima volta si affaccia il dolore.

Lou Reed, The Day John Kennedy Die, 1982. Parte tutto da un sogno. Quello della notte precedente. O quello incarnato da tutti gli interi anni ’60. Kennedy come simbolo di speranze rese opache dal tempo che passa. “Ho sognato che ero il presidente di questi Stati Uniti, ho sognato di aver sostituito l’ignoranza, la stupidità e l’odio”. Poi la rievocazione di quel 22 novembre: “Ricordo dove ero quel giorno: in un bar fuori città”.

Pearl Jam, Brain Of J., 1998. Il ritorno dei Pearl Jam alla furia grunge. E il primo pezzo dell’album, Yield, è intitolato al cervello di Kennedy, sulla cui sottrazione esiste una bibliografia sterminata e ai limiti del complotto. “Chi ha preso il cervello di JFK? Che cosa significa per noi ora?”. Un simbolo per tornare a desiderare un mondo privo di ogni sorta di autoritarismo.

Tori Amos, Jackie’s Strenght, 1998. La forza di Jackie. Attraverso il pianoforte e la voce di Tori Amos. Un dialogo tra donne che parte dal ricodo: “E’ stata una Bouvier fino al giorno del suo matrimonio. Esplosero degli spari, arrivò la polizia. La mamma mi mise sul prato di fronte a casa e pregammo per la forza di Jackie”.

Erykha Badu, Windows Seat, 2010. Qui il ricordo è in immagini. La Badu ripercorre le strade intorno al luogo dell’omicidio. Un lungo piano sequenza girato in digitale nella Dayle Plaza, il luogo dove gli Usa hanno perso l’innocenza. Con la cantante che resta nuda. Polemiche a non finire. Fino a quando la Badu ricorda Kennedy come uno dei suoi miti.

David Bowie, You will set the World on Fire, 2013. Nel disco del ritorno del Duca Bianco, The Next Day, c’è ancora una volta Jfk. Citato in una delle canzoni più dure dell’intero disco. E in un testo ermetico, rivolto a una non meglio precisata “ragazza”, Bowie chiama sulla scena il presidente “che affosserebbe tutto quello che hai scritto”.

 

Otis Spann, Sad Day in Texas, 1963. Quasi in diretta. Nel giorno dell’assassinio di Kennedy, Otis Spann era impegnato in una session alla Chees Records. E su un blues tradizionale, cantò il dolore per la scomparsa di uno dei paladini dei diritti civili.
Simon&Garfunkel, The Sound Of Silence, 1964. Paul Simon lo ha ricordato in molte interviste. In quei giorni del novembre del 1963, poco più che ventenne, era alla ricerca del proprio stile, della propria strada. E l’emozione per l’omicidio di Kennedy si trasferì in quella che è la sua composizione più celebre. Sottovoce, lo scoramento di una nazione. Tutto racchiuso in quell’atacco: “Hello darkness, my old friend…”.

Bob Dylan, Chimes of Freedom, 1964. Dylan ha sempre smentito che si tratta di un testo dedicato a Jfk. Ma, a sua volta, è smentito dalla filologia. Le parole della canzone ripercorrono quelle che Dylan scrisse sotto forma di poesia nei giorni successivi all’omicidio. Ed è difficile non cercare riferimenti in quelle campane per la libertà, “lampeggianti per i guerrieri la cui forza è non combattere, lampeggianti per i rifugiati sull’inerme via della fuga”.

The Beach Boys, The Warmth of The Sun, 1964. La composizione della canzone iniziò proprio la mattina dell’assassinio di Kennedy. Brian Wilson lo ha ricordato in un documentario del 1995. “E’ una melodia malinconica. Avevo la sensazione di aver smarrito la magia”. E Warmth of The Sun venne rifinita durante la notte, “una delle più spirituali” della band.

Crucifixion, Phil Ochs, 1966. Una metafora sul mondo che distrugge i propri eroi, chi cerca di migliorare le cose. La canzone nasce proprio dall’omicidio. Ochs: “L’assassinio di Kennedy aveva distrutto tutto quello che avevamo di buono”. Un viaggio nelle parti oscure della psiche di chi non vuole che le cose cambino.

The Doors, Not to Touch the Earth, 1968. Nella più visionaria delle sue canzoni, Jim Morrison compone un affresco dei demoni che attraversano la società americana stretta tra lotta per i diritti civili, guerra in Vietnam, sacche di conservatorismo puro. E, tra i simboli, “il cadavere del presidente che giace trivellato nella vettura dell’autista”.

The Rolling Stones, Symphaty for the Devil, 1968. Jagger\Lucifero che passa in rassegna i momenti della storia in cui il male ha esercitato il suo potere. Soprattutto attraverso l’istillazione del dubbio, “la natura del mio gioco”. E a metà della canzone, proprio quando il ritmo inizia a diventare vorticoso, Jagger canta: “Gridai: Chi ha ucciso i Kennedy? Quando dopo tutto, siamo stati io e voi”.

John Lennon, God, 1970. L’addio di Lennon alle certezze degli anni ’60, ai Beatles, a un intero decennio. Una preghiera al contrario in cui tutti gli idoli vengono abbattuti. L’elenco delle credenze da abbandonare nel nome di una personale assunzione di responsabilità: “Non credo nella Bibbia, nei Tarocchi, in Hitler, in Gesù, in Kennedy”. Solo in se stesso. E in Yoko.

 

 

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