Ingrid Bergman, "Stromboli", Gordon Parks, 1949.
Ingrid Bergman, “Stromboli”, Gordon Parks, 1949.

A chi apparterranno – o a chi saranno appartenute – le pupille che ci intravidero piangere quel giorno di vent’anni fa, dove saranno quelle che in silenzio ci accarezzarono quando i chiodi fissarono per sempre il coperchio della bara in cui giaceva l’amico? E quelle bigotte che stupite ci guardarono bestemmiare un dio che non c’era mentre la pioggia e il tempo ci scrosciavano addosso senza pietà? Quanti occhi ci hanno visto dormire?
Che viso staranno illuminando le iridi distratte che intercettarono l’euforia senza notare la furiosa eccitazione tra i nostri corpi e la goccia di piacere sulla tua pelle, la nostra complice oscenità sconosciuta al mondo?

Dove saranno (chi saranno diventati?) in questo momento tutti i passanti che hanno attraversato i nostri giorni come una polvere sottile e magnifica a cui non facciamo caso e che sedimenta lentamente alle nostre spalle? Poi ti volti e hai l’impressione che i ghirigori che ha formato siano, grosso modo, la vita. Cos’altro dovremmo fare oltre ad accogliere ogni giorno frammenti di esistenza nel recinto del nostro vivere e invadere per qualche frazione di secondo gli occhi degli altri? Cos’altro potremmo fare?

I passanti, vorrei abbracciare tutti i passanti. Tutti i passati.

Marco Giorgerini

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